A un certo punto accade… e non c’è modo di evitarlo: quel bellissimo e dolcissimo bambino, amore di mamma e papà, si trasforma in un mostro brufoloso che cammina ciondolante, risponde a grugniti e tiene chiusa la porta della sua stanza. C’è chi riesce a scorgere dei segnali anticipatori (qualcosa in lui sta cambiando), c’è chi ha la sensazione che sia avvenuto tutto in una notte e di risvegliarsi la mattina con un estraneo in casa («tu chi sei, dov’è finito mio figlio?!»).
Terrore di molti genitori, oggetto nel tempo di diverse e numerose rappresentazioni sociali e culturali che ne hanno indirizzato le conseguenti pratiche educative, si apre così quell’età della vita definita adolescenza: epoca di grandi trasformazioni fisiche, psicologiche, cognitive, emotive e relazionali il cui fil rouge si può individuare in quel lungo processo che ha come meta la costruzione della propria identità.
Già nelle prime fasi (pre-adolescenza) di questo percorso di crescita, il ragazzo percepisce che qualcosa, non solo fuori ma anche dentro di sé, sta mutando, anche se non riesce inizialmente a dare un nome alla tempesta di emozioni, sensazioni, angosce e brividi che gli si agitano dentro in maniera incontrollata. In questo senso, grande importanza assumono le modificazioni cognitive che accompagnano quelle fisiche: il passaggio dal cosiddetto “pensiero concreto” a quello “ipotetico-deduttivo” gli permetterà infatti via via di conquistare la capacità di rappresentarsi, osservare sé stesso in cambiamento e valutare quanto in lui sta avvenendo.
In questo periodo così incerto osserviamo nei comportamenti dei ragazzi numerosi movimenti e oscillazioni che non sempre sono adeguatamente compresi dal mondo adulto. L’adolescente mette in crisi il genitore e spesso la risposta più immediata è quella di assumere un atteggiamento giudicante («non mi ascolti, ti comporti male, perché fai così? Non hai voglia di far niente, mi fai impazzire, non ti riconosco più!») o eccessivamente apprensivo («ho paura che abbia qualche problema…»). Entrambe le modalità di reazione, seppur comprensibili, non facilitano la relazione educativa che già di per sé attraversa una delicata fase di ridefinizione.
L’invito è dunque a un cambio di prospettiva: il primo, difficile compito dei genitori è quello di riuscire a guardare ai comportamenti contraddittori dei ragazzi come manifestazioni esteriori di bisogni profondi e di un percorso evolutivo che, per natura, procede per prove ed errori, tappe non lineari, fughe in avanti e precipitosi ritorni. Ciò significa mettersi in ascolto e recuperare uno sguardo positivo rispetto a quest’età della vita che possiede un enorme valore generativo.
Chi ha avuto la possibilità di entrare in relazione con i ragazzini del “non sono più ma non sono ancora” sa, con certezza, che dietro un modo di fare a volte irritante o apatico o quasi indecifrabile vi è un meraviglioso tesoro di bellezza, sensibilità d’animo e potenzialità da scoprire.
Un primo passo importante è quello di riconoscere al ragazzo la crescita che sta compiendo, attribuendo valore all’esperienza che egli vive. Se un tempo parte di questa essenziale funzione era assolta dai numerosi “riti di passaggio”, che segnavano la transizione dall’infanzia alla nuova nascita dell’adolescenza, anche oggi è non solo possibile, ma auspicabile, individuare e riproporre una nuova ritualità simbolica.
Un esempio semplice ed efficace può essere la consegna delle chiavi di casa. Un gesto che, se compiuto dai genitori al momento propizio, comunica una serie di messaggi importanti. Consegnare le chiavi vuol dire «sei abbastanza grande per…», «ci siamo accorti che non sei più il bambino di ieri». Significa al tempo stesso riconoscere il momento di crescita e dare fiducia, e ancora offrire un’opportunità di autonomia ed esercizio della responsabilità, accompagnata da regole condivise.
E se pensiamo che parlare di fiducia e responsabilità nei riguardi di un ragazzino ancora incerto nel mondo sia azzardato o paradossale, chiediamoci come riuscirà a imparare senza averne mai fatto esperienza e ricordiamoci che, al contrario, sta proprio qua il significato più profondo dell’educare. Viviamo quindi l’adolescenza dei nostri figli non come una condanna o una malattia bensì come un’affascinante avventura, provando a scorgere nel ragazzino brufoloso di oggi quel giovane adulto che sboccerà domani.
pedagogista, svolge attività privata di consulenza pedagogica nel sostegno alla genitorialità e al percorso di crescita di bambini e adolescenti. Coordina progetti di educazione e accompagnamento alla morte e all’esperienza della perdita, si occupa di famiglie adottive e lavora come formatrice per gli operatori di nidi e scuole dell’infanzia nella provincia di Messina. È stata vicedirettrice di Uppa magazine dal 2018 e dal 2022 ne è diventata direttrice.