La mamma di un compagno di nido di mio figlio Giorgio mi chiama per avvisarmi che suo figlio Francesco “ha i vermi”. «Ho già contattato le educatrici e le responsabili», aggiunge. Le chiedo da cosa le sia nato il sospetto e lei mi risponde: «Francesco mi ha detto che gli prude il sederino». Le chiedo quindi se ha fatto fare a suo figlio un esame delle feci: «Non ce n’era bisogno», ribatte lei, «ho sentito il pediatra e mi ha detto che in questo periodo molti bambini hanno i vermi, perciò mi ha prescritto una terapia per sverminarlo».
Ora, a parte un mio professionale scetticismo (in quanto medico veterinario) di fronte all’improbabile evenienza che stuoli di vermi si facciano piacevoli «passeggiate» per le stanze del nido, rimango molto perplessa da questa modalità di affrontare il problema che, personalmente, non riserverei neanche ai miei pazienti pelosi.
Dopo tre giorni risento la mamma di Francesco: «Il pediatra mi ha detto di sverminarlo con una nuova dose. L’avrebbe dovuta ripetere dopo una settimana, ma visto che è ancora così agitato, è meglio ripeterla prima, così siamo sicuri di uccidere sia i vermi adulti che le larve».
Dopo qualche giorno mio figlio Giorgio manifesta a sua volta uno strano «prurito al sederino» e io, influenzata mio malgrado dalla mamma di Francesco, decido di seguire ciò che prescrive la letteratura scientifica in casi simili: raccolgo due campioni di feci in giorni diversi, li porto in un comune laboratorio di analisi e faccio eseguire un esame per la ricerca di parassiti. E visto che l’esito è negativo, scelgo di fare ciò che in queste circostanze andrebbe fatto in prima battuta: migliorare l’igiene personale del mio bambino dopo i bisogni e iniziare a utilizzare una crema protettiva. Dopo un paio di giorni il problema è risolto, e non c’è stato bisogno di assumere alcun farmaco.
La situazione che abbiamo descritto ci porta a riflettere – non certo per la prima volta – sull’uso corretto dei farmaci: spesso infatti il problema non dipende dai pazienti, ma nasce da un atteggiamento piuttosto superficiale e sbrigativo di una parte del corpo medico, pronto a prescrivere medicinali anche quando non è strettamente necessario. Questo atteggiamento, però, può essere efficacemente controbilanciato da una maggiore consapevolezza da parte di chi riceve la prescrizione: spesso basta chiarire che non si “pretendono” farmaci, ma semplicemente indicazioni chiare per mettersi sulla via della guarigione (ne parliamo anche nell’articolo Otite nei bambini: quando serve l’antibiotico?).
I farmaci aiutano a guarire, certo, ma bisogna sempre ricordare che non sono esenti da effetti collaterali o avversi. La parola “farmaco”, che deriva dal latino pharmacum, ha in sé anche il significato di “potenziale veleno”, qualora sia assunto in dosi eccessive o nelle modalità sbagliate.
Negli ultimi decenni, inoltre, il cattivo impiego di alcuni farmaci appartenenti alla classe degli antibiotici, sia in campo umano che in campo veterinario, ha contribuito alla selezione di alcuni tipi di batteri (“ceppi batterici”) definiti “antibiotico-resistenti” e quindi molto difficili, se non impossibili, da sconfiggere.
Nell’ambito di un’iniziativa internazionale volta a valorizzare questa comunanza di obiettivi riguardanti la salute umana e animale (questo il link in inglese alla pagina di riferimento), il ministero della Salute, su esortazione della Comunità Europea, ha finalmente acceso i riflettori su un problema finora colpevolmente sottovalutato e per questo poco conosciuto dalla popolazione: quello della resistenza dei microbi agli antibiotici (Antimicrobial Resistance o AMR).
Per comprendere le ragioni di questa azione congiunta, bisogna sapere che nel settore veterinario viene consumato oltre il 50% degli antibiotici utilizzati globalmente, e che, normalmente, microbi e corpo ospitante (sia esso umano o animale) non si disturbano affatto, anzi. I microbi ci accompagnano fin dalla nascita e svolgono spesso un’azione a noi favorevole: pensiamo alla famosa “flora batterica intestinale”, composta di molti batteri buoni e pochi cattivi che, in cambio di vitto e alloggio, ci aiutano, tra le altre cose, a digerire, a produrre vitamine, a rafforzare le nostre difese immunitarie. E la stessa cosa avviene anche in altre parti del nostro corpo.
Finché il sistema è in equilibrio, tutto va bene, ma se compare un fattore di disturbo, come una terapia antibiotica o, peggio ancora, la costante ingestione di antibiotici nel cibo che mangiamo tutti i giorni, le cose cambiano, aprendo la strada alla selezione e quindi alla diffusione di batteri resistenti, sia negli esseri umani che negli animali. Un antibiotico efficace, infatti, non solo non distingue tra batteri “buoni” e batteri “cattivi”, ma, per quanto potente, non riuscirà mai a debellarli tutti; qualcuno sopravvivrà, e se si tratta di quello cattivo, non dovrà più dividersi i mezzi di sussistenza con quelli buoni e si moltiplicherà pericolosamente. Inoltre c’è la possibilità di un trasferimento di batteri resistenti dagli animali all’uomo, sia attraverso un contatto diretto o assumendo alimenti di origine animale che indirettamente, attraverso cicli più complessi di contaminazione ambientale.
La relazione tra impiego di antibiotici e sviluppo di AMR negli allevamenti, così come il rischio di trasmissione di batteri resistenti all’uomo, sono ormai dimostrati, mentre sappiamo ancora poco riguardo all’entità del rischio di infettarsi mangiando alimenti di origine animale.
Per tali ragioni, tutti i medici, che si occupino di uomini o di animali, sono chiamati a combattere in prima linea questa “battaglia” per l’uso corretto dei farmaci; significa, in altre parole, attenersi ai risultati più aggiornati della ricerca scientifica ed evitare di prescrivere medicine quando non è necessario, come nella paradigmatica storia da cui siamo partiti.