La maggior parte dei bambini, prima dei 3 anni e mezzo, fatica a lavorare in gruppo: si sentono maggiormente a loro agio nelle attività individuali, specialmente in quelle in cui non sono ancora “capaci”.
Interessi, obiettivi, modalità e tempi di lavoro sono fortemente soggettivi e personali. Ad esempio, alcuni bambini molto abili nel linguaggio devono ancora esercitarsi sul coordinamento motorio, così come chi è abile nell’orientamento spaziale potrebbe dover allenarsi nel disegno o nella relazione con gli altri.
Queste specificità individuali rendono complessa l’organizzazione di attività di gruppo, che spesso si rivelano di difficile gestione: alcuni bambini sono interessati, altri meno, alcuni sono già molto competenti, altri non ancora.
La maestra può faticare a condurre un’attività strutturata e omogenea, perché deve riuscire ad adattare la comunicazione, il materiale impiegato, la difficoltà d’esecuzione e le tempistiche a una pluralità di bisogni e abilità.
Intorno ai 6 anni, tutti i bambini hanno raggiunto un buon grado di sviluppo nelle varie competenze: motorie, linguistiche, manuali e relazionali. Questa “omogeneità” rende i bambini pronti al confronto e alla condivisione.
Dopo i 4 anni si accentua il desiderio di “fare insieme”: cresce l’interesse per i giochi di società e per il gioco simbolico e i bambini amano svolgere attività con gli adulti e in compagnia dei coetanei.
La scuola difficilmente è allineata con questo indirizzo di sviluppo, poiché propone attività laboratoriali e di gruppo al nido e alla scuola dell’infanzia nelle quali tutti i bambini insieme, nello stesso momento, si trovano a sperimentare la manipolazione della pasta, la pittura o la ginnastica, dovendo condividere tempi di lavoro, materiali e progetti.
Poi, durante gli anni della scuola primaria, tendenzialmente si indirizzano i bambini verso il lavoro individuale: banchi di lavoro singoli, a volte distanziati l’uno dall’altro, divieto di copiare o svolgere insieme i compiti, votazioni numeriche individuali, gare di tabelline, di velocità nelle operazioni e risoluzione di problemi, “educandoli” così al confronto e alla competizione.
Al contempo, però, si declama a gran voce il desiderio di educare all’empatia, all’altruismo, alla cooperazione, all’ascolto e alla condivisione, preparando la nuova (futura) forza lavoro al lavoro di rete, al cooperative learning e al brain storming.
Come è possibile senza esercizio? Come può una persona essere in grado di lavorare in rete con altre dieci, senza aver sperimentato tale modalità negli anni della formazione?
Educare alla cooperazione si può, inoltre senza rinunciare all’individualità. Come? Con la misura, l’equilibrio, il buon senso e naturalmente ascoltando i bambini e compiendo un atto di umiltà come insegnanti.
Educare alla cooperazione – permettendo ai bambini di cooperare – prevede che la maestra o il maestro accettino risultati non prevedibili in anticipo, soluzioni ai problemi differenti da quelle ipotizzate, modalità di raggiungimento degli obiettivi decise in corso d’opera dal gruppo di lavoro.
Educare alla cooperazione prevede un’analisi e una riprogettazione dell’ambiente di lavoro, con un decentramento della cattedra e, di conseguenza, del ruolo del maestro quale principale, se non unico, fulcro del processo educativo. Potrebbe accadere che alla domanda di un alunno sappia rispondere un compagno, invece che l’insegnante. Cosa comporterebbe ciò? Colui che viene aiutato potrebbe sperimentare il valore del chiedere aiuto e chi aiuta potrebbe sentirsi importante e soddisfatto. Al contempo l’insegnante potrebbe rivestire i panni del moderatore, più che del dispensatore di nozioni, facilitando i processi di apprendimento e facendosi promotore di solidarietà e di cooperazione. Significa offrire strumenti e occasioni di ricerca e analisi invece che risposte e soluzioni.
Ma perché ciò avvenga, chi sta alla cattedra dovrebbe aver voglia di lasciare spazio ai bambini, facendo sì che possano parlare e muoversi nell’ambiente, dovrebbe favorire il confronto e lo scambio, educare alla discussione, sviluppare competenze da mediatore e rinunciare a una posizione privilegiata ed egocentrica.
I bambini dovrebbero porre domande e i maestri dovrebbero creare le condizioni ambientali e relazionali per dar loro modo di cercare da sé e costruirsi le risposte, invitando al ragionamento, all’unione delle forze e delle competenze di ciascuno.
Tale ragionamento nasce dalla difficoltà, quotidianamente espressa, degli educatori dei nidi e dell’infanzia di far lavorare i bambini in gruppo e dalla difficoltà di far lavorare individualmente i bambini nella scuola primaria.
Il problema, a mio avviso, è proprio la discrepanza tra i bisogni dei bambini e le relative risposte educative che la scuola offre.
Forse la difficoltà di “tenere la classe”, a qualunque età ci si riferisca, si potrebbe superare se si ascoltassero i bambini, se si tenesse conto della loro inclinazione, dei bisogni che attraverso il comportamento ci mostrano.
Tuteliamo il lavoro individuale quando i bambini manifestano il bisogno di lavorare “da soli” per concentrarsi su loro stessi e permettiamo ai bambini di essere cooperativi quando mostrano questa competenza e ne manifestano il desiderio.
formatrice, pedagogista e autrice, progetta e coordina servizi per la prima infanzia e svolge corsi di formazione per insegnanti e genitori sulla pedagogia montessoriana. Autrice del libro Qui abita un bambino edito da Uppa Edizioni, cura la rubrica "Tra il dire e il fare" su Uppa.