Il lutto perinatale è il lutto che si sperimenta quando si perde un bambino durante la gravidanza, durante il parto o dopo la nascita: si tratta di un’esperienza comune a molte donne, circa una su sei, che trova poco spazio nella nostra cultura. È un evento che segna profondamente le persone colpite e può avere delle conseguenze molto gravi sulla salute personale, di coppia e familiare.
Il lutto perinatale ha le caratteristiche tipiche di tutti i lutti, incluso l’aborto spontaneo, e per essere elaborato va attraversato giorno dopo giorno. Ma è più facile a dirsi che a farsi, perché, mentre tutti affermano che “bisogna elaborare”, pochi si prendono la briga di raccontare cosa significhi davvero elaborare, spiegando come è fatto il lutto, quali sono le cose utili da sapere, quali le insidie che si corrono mentre lo si elabora. Molti parlano per sentito dire, di cose che spesso non conoscono o non comprendono. Questa superficialità purtroppo alimenta il tabù intorno al lutto e i giudizi intorno alle strategie per elaborarlo, frequentemente etichettate come “strane”, “eccessive”, “stravaganti”, “inappropriate”. L’assenza di riferimenti culturali chiari amplifica il senso di isolamento e solitudine di chi viene travolto dal lutto perinatale.
Affrontare il lutto perinatale non è per niente facile, soprattutto se culturalmente è più frequente che il lutto si urli o si nasconda. Ciò è vero in particolare quando parliamo di un bambino nato morto, decisamente troppo piccolo per essere considerato come un lutto “grave”, al pari degli altri… ma il lutto non considera pesi e misure, i respiri fatti o le settimane di gestazione raggiunte.
Il lutto ha una dimensione profondamente soggettiva: si piange l’oggetto d’amore perduto, la relazione che si è interrotta, i progetti che non avranno compimento. Si piange, a volte, per l’apparente incomprensibilità del proprio piangere, per le facce attonite degli altri, per il loro non capire come mai siamo “così affezionate” ai nostri bambini. Per il senso di solitudine da cui ci si sente circondate. Per la fatica di dover spiegare che «non era solo un feto. Era un bambino, il mio. Era il bambino che aspettavo. Che aspettavo, ma…».
Le donne e le coppie che incontro nei gruppi di ascolto mi raccontano quanto sia difficile poter elaborare in pace il lutto perinatale, senza doversi giustificare o scusare. Senza dover dare spiegazioni.
Come abbiamo detto, una donna su sei affronta quotidianamente una delle mille sfaccettature del lutto perinatale, mentre è impegnata a elaborare l’accaduto, a fare accertamenti, a rientrare al lavoro, a crescere altri figli, a fare la spesa. Gran parte dell’impegno quotidiano, almeno all’inizio, è rivolto a tenere a bada il lutto, a non concedergli troppo spazio. A evitare che si mostri alla vista di una donna incinta o sentendo il pianto di un neonato, o alla riunione della scuola materna dopo l’annuncio che è arrivato un fratellino. «La vita continua», ci si sente dire. E all’inizio non si riesce a credere che ci sia qualcosa al di là del lutto.
Il lutto nei primi mesi è totalizzante. Prende tutto lo spazio interiore e spesso anche quello esterno. Condiziona le scelte e i comportamenti anche quando ci si sforza di “riprendere in mano la propria vita”.
Non si può scegliere, infatti, quando sentire il lutto e quando metterlo da parte. Non si può sapere, prima che accada, come si reagirà alle domande degli altri, alle facce e ai silenzi altrui. Il percorso di elaborazione del lutto assomiglia a un labirinto: costringe talvolta a fare dei giri a vuoto, a ripassare da posti già visti, a affinare i sensi per riuscire a orientarsi in un ambiente nuovo e non troppo amichevole. Elaborare il lutto è più facile se ci si arma di pazienza, se si ha fiducia in sé stessi e nelle proprie possibilità, e se si è capaci di chiedere aiuto.
In generale, dopo diciotto o ventiquattro mesi, arriva il momento tanto atteso in cui il lutto da totalizzante diventa marginale, entra a far parte della nostra biografia senza occuparla interamente, impedendoci di vivere. Quello è il momento in cui si considera concluso il percorso di elaborazione: per arrivarci, le donne e le famiglie colpite da perdita perinatale devono poter vivere l’esperienza del lutto ricevendo il giusto sostegno e un supporto competente da parte di tutti, cittadini, amici, familiari, professionisti.
Riportiamo la testimonianza di Anna, mamma di Giacomo, nato morto a trenta settimane di gestazione.
«Allora, hai già partorito?», mi chiede, sorridente, la segretaria del mio medico di base.
Resto in silenzio.
Vorrei essere altrove, per non rispondere ancora una volta. Per non raccontare, ancora una volta.
«Eri incinta, o mi ricordo male io?», incalza, sempre sorridendo, mentre raccoglie le richieste che mi ha preparato il medico e le infila in una busta.
Guardo in terra. Deglutisco. Respiro. Alzo gli occhi. Rispondo.
«È che aspettavo un bambino, un maschietto, ma…».
La segretaria alza lo sguardo. Vede finalmente i miei occhi vuoti.
Sono gli occhi della madre “orbata” (è così che si diceva, prima, di chi perdeva un figlio).
Afferra un frammento del mio dolore con lo sguardo. Ne farebbe a meno, ma ormai è troppo tardi.
Soffro di un dolore contagioso. L’ho scoperto subito dopo la diagnosi di morte del mio Giacomo.
Tutti muti. Tutti costernati. Tutti annichiliti dal mio dolore. Un dolore così grande che una madre, da sola, non lo può sostenere.
Così grande che per essere elaborato, bisogna per forza dividerlo in piccoli pezzi, e spesso condividerlo.
Quando inizio a dire questa cosa, io lo so già come va a finire, nove volte su dieci.
Lo so che poi, quasi sempre, arriva il gelo. È il gelo dell’imbarazzo per avere fatto una domanda che ha una risposta dolorosa, è il gelo della consapevolezza di quanto indescrivibile sia la mia condizione attuale; è il gelo della pietà, per questo dolore che non so dove mettere e che se ne esce quando meno me lo aspetto, come adesso, qui, davanti al banco della segretaria del medico di base.
Sono qua in piedi, con gli occhi orbi e il dolore che mi stringe le spalle, come un cappotto troppo stretto che non riesco a sfilare. E intorno c’è quel silenzio. Quello di chi vorrebbe non avere mai saputo. Di me, del mio bambino, della me felice che aspettava un bambino, finché non è arrivato il “ma”.
Un silenzio che sembra fatto di spine. Un silenzio allarmato. Sguardi bassi, parole farfugliate.
«Mi scusi, non sapevo. Ecco le sue impegnative».
Silenzio e imbarazzo, mentre il torrente di lacrime preme per uscire. Di nuovo. Erano due giorni che non piangevo. Credevo di stare andando bene.
Esco.
Nascondo gli occhi orbi di vita e pieni di lacrime con gli occhiali da sole.
Peccato che siano le cinque del pomeriggio, piova da un pezzo, e l’estate sia un ricordo lontano.
Medico psichiatra e psicoterapeuta cognitivo comportamentale. Si è perfezionata in psicologia clinica perinatale e in linguaggi narrativi e letteratura per l'infanzia e l'adolescenza. Ha un Master Universitario in Disturbi alimentari in età evolutiva e un Master Interuniversitario europeo in Neuroscienze dell'umore. Attualmente è dottoranda di ricerca in Neuroscienze con un progetto sulla salute mentale in epoca perinatale.