C’è il bimbo che a scuola non vede bene la lavagna e quello che al parco fatica a riconoscere gli amichetti quando sono un po’ più lontani. I piccoli problemi di vista riguardano moltissimi bambini e portano con sé tutta una serie di dubbi per i genitori. Come comportarsi quando si sospetta un difetto visivo e come affrontarlo al meglio? Ne abbiamo parlato con Roberto Caputo, responsabile dell’unità di Oftalmologia pediatrica all’ospedale Meyer di Firenze, uno tra i centri più all’avanguardia per la cura dei problemi della vista nei bambini.
Il primo passo per aiutare un bambino a vederci meglio è, innanzitutto, accorgersi del fatto che qualcosa nella sua vista non va come dovrebbe. E a tal proposito, possiamo subito contare sul pediatra di famiglia. «Dovremmo essere felici e orgogliosi del supporto del pediatra di base che ci viene offerto dal Servizio Sanitario Nazionale», sottolinea il dottor Caputo. «I pediatri di famiglia ci offrono il loro supporto fin da quando i nostri bambini sono molto piccoli anche per quanto riguarda la vista, e la loro formazione li tiene costantemente aggiornati», aggiunge. E i controlli dei primi mesi potranno già mettere in evidenza alcune difficoltà. Poi c’è l’importante tappa dei tre anni, età in cui i bambini vengono solitamente sottoposti a visita oculistica. Ma di quali fattori è importante tenere conto? «Il primo è, senza dubbio, la familiarità: un bambino figlio di genitori che portano gli occhiali o nella cui famiglia abbondano i difetti visivi ha più probabilità di averne a sua volta», afferma Caputo. Ci sono poi altri campanelli d’allarme, come la difficoltà a riconoscere le persone da lontano o la necessità di avvicinarsi di più al foglio quando si disegna; in generale, tutti gli atteggiamenti che denotano difficoltà nella messa a fuoco delle immagini. In questo caso, una visita specialistica è senz’altro raccomandabile, anche prima dei 3 anni.
Non sempre, però, il comportamento del bambino ci aiuta a sospettare la presenza di un difetto visivo. Alcuni fattori di disturbo possono, infatti, mascherare il problema. «Di solito – afferma Caputo – non è difficile accorgersi di un problema che riguarda entrambi gli occhi, perché le difficoltà sperimentate dal bambino emergono in modo più chiaro. Ma quando il problema è quello di un occhio dominante, che lavora a spese dell’altro, è possibile, anzi frequente, che il bambino non mostri alcun sintomo». Si tratta di quella condizione clinica che si indica comunemente con l’espressione “occhio pigro”, ma che si chiama, in realtà, ambliopia. Ciò che accade è che un occhio (in assenza di problemi organici) funzioni solo in parte o non lavori affatto, “appoggiandosi” all’altro occhio, che lavora quindi per due. «In casi come questo, il bambino spesso non mostra alcuna difficoltà», sottolinea Caputo. «Talvolta si può notare la tendenza del bambino a tenere la testa un po’ troppo inclinata quando disegna, oppure si può avere un lieve strabismo, che, in questo caso, è un elemento positivo, che facilita la diagnosi, ma in altri casi i sintomi sono vaghi o del tutto inesistenti», aggiunge. In passato, perciò, accadeva che si arrivasse all’età adulta senza che l’ambliopia venisse mai diagnosticata e si riusciva anche a studiare e prendere la patente vedendo, di fatto, con un solo occhio. Ma un’ambliopia non diagnosticata può seriamente compromettere la qualità della propria visione, perché è solo quando entrambi gli occhi lavorano che le immagini ci appaiono tridimensionali e si riescono a valutare proporzioni e distanze. È anche per questo motivo che la visita oculistica dei 3 anni è così importante, anche in assenza di sintomi.
Che cosa fare, dunque, di fronte a una diagnosi di ambliopia? «Un intervento tempestivo è, in questo caso, fondamentale», commenta Caputo. «A tre anni si è in tempo per un recupero anche completo, in rapporto alla gravità del problema. Tra i 6 e i 10 anni la situazione è decisamente più difficile». Sempre per favorire una diagnosi tempestiva, in caso di familiarità per l’ambliopia (per esempio, se ne hanno sofferto i genitori o i fratelli del bimbo) è bene sottoporre il bambino a visita oculistica già a un anno di età. «Di solito la terapia dell’ambliopia prevede un bendaggio dell’occhio dominante, da dosare a seconda della gravità», ricorda Caputo, che sottolinea l’importanza di non lasciarsi scoraggiare dalle iniziali resistenze del bambino, proprio nel suo interesse, considerando che il tempo per agire in modo efficace è molto limitato. «Io consiglio di coinvolgere e responsabilizzare tutte le figure di riferimento, anche i nonni, se vivono con il bambino o se trascorrono abitualmente del tempo con lui. È importante che tutti collaborino per far capire al piccolo l’importanza di tenere addosso la benda per tutto il tempo stabilito dall’oculista».
E quando, invece, ci si trova di fronte ai “classici” difetti della vista come la miopia, l’astigmatismo e l’ipermetropia? In questo caso, come sappiamo, solitamente la diagnosi porta alla prescrizione di occhiali da vista per compensare il difetto. Ma è sempre necessario mettere gli occhiali? «Dipende», sottolinea il dottor Caputo. «Quando il difetto visivo è al di sotto di una diottria, se il bambino non avverte disagi, si può anche evitare di correggerlo. Ma quando si va oltre è molto probabile che il rendimento scolastico del bambino possa risentirne, quindi, in questo caso, gli occhiali sono la scelta giusta».
E i tanto citati occhiali “da riposo”? Di che si tratta? Chi li deve portare? «In oftalmologia l’espressione “occhiali da riposo” non ha alcun senso», evidenzia l’oculista. «Nel linguaggio comune, spesso si indicano con questa espressione quegli occhiali che vengono prescritti per difetti visivi molto bassi, che si possono anche non correggere. In questo caso dovrebbe prevalere il buon senso: se il bambino non ha sintomi e il difetto è effettivamente molto lieve, spesso non ha senso correggerlo. Non esistono, però, linee guida condivise e valide a livello internazionale», aggiunge il dottore. Di solito si tende a correggere comunque la miopia, che ha un maggiore impatto sulla scuola, al contrario dell’ipermetropia e dell’astigmatismo.
Ma è vero che prescrivere a bambini e adolescenti occhiali che non correggono del tutto il difetto può rallentare la progressione della miopia? «Le evidenze scientifiche oggi ci consentono di dire con certezza che questa pratica, abituale soprattutto in passato, non ha alcun senso e anzi causa grandi disagi al bambino, che si ritrova con occhiali non adeguati ai suoi bisogni», afferma Caputo. «Non è, però, neppure il caso – aggiunge il dottore – di cadere nell’eccesso opposto, inseguendo ogni aumento di gradazione, anche minimo. Meglio controllare regolarmente il progredire della miopia e cambiare le lenti quando se ne ha effettivamente bisogno, senza ritoccarle per una differenza di 0,25».
TV, videogame e abitudini che affaticano la vista sono spesso chiamati in causa per spiegare la diffusione della miopia, che sembra aumentare esponenzialmente. Si tratta solo di un’impressione o siamo davvero più miopi rispetto al passato? «No, non si tratta affatto di un’impressione», afferma Caputo. «Le ricerche hanno messo in evidenza come i fattori ambientali incidano per un 50%, insieme a quelli genetici, sulla miopia. Per esempio, la diffusione della scolarizzazione è correlata a una maggiore diffusione della miopia, che è favorita anche dall’intenso lavoro da vicino e dal minor numero di ore trascorse all’aria aperta». A tutt’oggi non è ancora perfettamente chiaro quale sia il meccanismo che mette in relazione il numero inferiore di ore trascorse all’aria aperta con l’incidenza della miopia: si ritiene che un ruolo venga svolto da un neurotrasmettitore, la dopamina; più ore trascorse all’aria aperta portano a una maggiore produzione di questa sostanza, che sembra avere una funzione “protettiva” nei riguardi della miopia.
E che dire degli integratori che vengono reclamizzati con grande insistenza? Hanno veramente una qualche efficacia nel contrastare il progredire della miopia? Mirtillo, luteina e altri preparati possono davvero aiutare i nostri bambini a rallentarla? «Nessun integratore ha dimostrato di essere efficace – afferma il dottor Caputo –, quindi si tratta di una spesa inutile, che dà false aspettative e certamente da sconsigliare». Lo stesso discorso vale per altri rimedi “alternativi” come i cosiddetti “occhiali stenopeici”, caratterizzati da lenti con tanti piccoli buchi. «Le affermazioni sensazionalistiche che riguardano questo tipo di occhiali non hanno alcuna base scientifica, quindi di fatto non servono a nulla», sottolinea l’oculista.
E la chirurgia refrattiva? È possibile accedervi in età pediatrica? «In linea di massima no», ricorda Caputo. «Di solito si evita di intervenire con il laser su bambini e adolescenti, perché il difetto visivo è ancora in evoluzione. Si può però decidere di procedere, in centri altamente specializzati, in casi particolari, per esempio quando c’è una grande differenza tra un occhio e l’altro, oppure in presenza di difetti difficili da correggere con gli occhiali».
Una speranza per i bambini che hanno una miopia che procede velocemente (soprattutto quando c’è una familiarità per questo difetto visivo) viene da un trattamento sperimentale che ha mostrato una chiara efficacia. «Si tratta di una terapia, oggi disponibile in alcuni centri specializzati, che utilizza un collirio molto diluito a base di atropina, che ha dimostrato di essere efficace nei bambini e nei preadolescenti con miopia che aumenta esponenzialmente», conclude l’oculista.
Divulgatrice scientifica, è socia effettiva e presidente della sezione pugliese del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) e membro del direttivo dell’associazione professionale di comunicatori della scienza SWIM. Scrive per diverse riviste cartacee e online, tra le quali Le Scienze, Mind, Uppa, Focus Scuola, Wired.it, Wonder Why, Scientificast.