È impossibile evitare che i bambini, anche molto piccoli, vedano le immagini di violenza e di morte che arrivano dai luoghi di guerra. Molti di noi stanno guardando con apprensione, proprio in queste ore, foto e filmati del conflitto tra Russia e Ucraina che stanno facendo il giro del mondo, o avranno letto con sconcerto la notizia delle mamme ucraine che discutono su Facebook sull’eventualità di apporre un adesivo sui vestiti dei loro bambini con riportato sopra il loro gruppo sanguigno. Sono notizie che ci comunicano una sensazione di orrore, di profonda ingiustizia.
Cosa accade a un bambino di fronte a immagini e notizie che parlano di altri bambini attaccati con le armi mentre cercano di fuggire insieme ai loro genitori? Di bambini uccisi, annegati, di bambini terrorizzati, affamati, soli?
Le reazioni emotive più frequenti sono l’angoscia e la perdita di sicurezza: la confortante certezza che gli adulti sapranno sempre proteggerli, che ci sono luoghi sicuri, la casa innanzitutto, si scontra con una realtà di bambini feriti, di genitori impotenti, di case distrutte.
Dobbiamo tutelarli dal contatto con quella realtà, dalle immagini crude, dalle notizie angoscianti?
La cautela – non la censura – è sicuramente consigliabile, specie con i bambini più piccoli: non lasciarli mai soli davanti alla televisione e, nei periodi di maggiore insistenza dei media su situazioni critiche – in questi giorni, appunto, quella in Ucraina –, ridurre per quanto possibile le occasioni in cui i bambini sono esposti a notizie e commenti degli eventi. L’obiettivo, in ogni caso, non è che i bambini non sappiano che cosa accade, ma che le informazioni e soprattutto le immagini che ricevono non siano troppe e troppo angoscianti per poterle elaborare e sopportare.
Una mamma racconta che di fronte a immagini di quel tipo il suo bambino di 7 anni a volte piange, anche a lungo. Lei è preoccupata, ma dovremmo pensare che il dolore e la compassione per qualcosa che succede ad altri non sono emozioni negative: sono anzi il modo più “nobile” e umano di rispondere al male, all’ingiustizia. Non sarebbe educativo cercare di proteggere i bambini da quel dolore con frasi tipo «Ma sono cose che succedono molto lontano da qui», «Tu non devi preoccuparti, a te non potrà mai accadere»; e del resto frasi del genere non sono affatto efficaci per aiutare i nostri figli a fronteggiare la paura, l’angoscia, l’insicurezza.
Se il bambino appare spaventato, o se dice di avere paura, è meglio dirgli che è logico che si senta così, perché queste cose sono molto brutte e fa paura pensare che bambini come lui si trovino in pericolo e che stiano male; che questo per fortuna non sta avvenendo qui, ma che è molto importante cercare di aiutare quei bambini e quei genitori.
Per aiutare il bambino a tollerare ed elaborare la paura e l’angoscia legate a situazioni più grandi di lui – la guerra, le epidemie, la violenza – dobbiamo fare in modo che non si senta totalmente passivo e impotente: che veda nei grandi la capacità e l’impegno di fronteggiare quelle situazioni, di non subirle. Il modo in cui gli adulti ne parlano fra loro è già uno strumento educativo, per questo dobbiamo fare attenzione a ciò che diciamo, e assumere noi stessi un atteggiamento attivo, e non indifferente o fatalista: l’indifferenza o la colpevolizzazione delle vittime («Se stessero a casa loro non metterebbero in pericolo i loro bambini») non sono né educative né rassicuranti per i bambini, anzi li fanno sentire esposti alla casualità e all’imprevedibilità degli adulti.
È importante dire al bambino: «Ci sono molte persone che stanno cercando di fare qualcosa per aiutarli, speriamo che ci riescano, se c’è qualcosa che possiamo fare anche noi, lo faremo».
Insomma, non possiamo evitare che i nostri figli entrino in contatto con gli aspetti più brutti e più violenti della realtà; possiamo però aiutarli a trasformare il dolore e l’angoscia che questo contatto produce in empatia, compassione, impegno e desiderio di giustizia. Diciamo loro che sono una speranza, usando fiabe o racconti con i più piccoli e tenendo aperti i discorsi su questi temi con i più grandi: «Il fatto che queste notizie ti addolorino è importante, se voi che siete bambini oggi manterrete la capacità di provare dolore per chi soffre, da grandi sarete migliori di noi, e forse cose di questo genere avverranno di meno».
psicologa, psicoterapeuta della famiglia e docente di counselling alla Scuola di specializzazione in Pediatria dell’Università di Torino, ha elaborato il metodo del counselling sistemico narrativo, che utilizza nella formazione dei professionisti e negli interventi per lo sviluppo delle competenze genitoriali. Ha fondato la scuola di comunicazione e counselling CHANGE di Torino.