Facciamo un gioco: proviamo per un attimo a immaginare il momento del pranzo in famiglia con i bambini come se fosse uno spettacolo teatrale. Immaginiamo anche di poterci magicamente sdoppiare, per scendere dal palcoscenico, sederci in poltrona e assistere dalla platea alla rappresentazione della nostra famiglia a tavola.
Da questa insolita prospettiva, la prima cosa che ci salterebbe agli occhi è che in scena, oltre al cibo, ci sono molte parole – discorsi, racconti, commenti, giudizi, chiacchiere, scherzi, rimproveri – e qualche silenzio. Ora, per una volta, ignoriamo il contenuto dei piatti e concentriamoci soltanto sui dialoghi, perché questi, come vedremo, giocano un ruolo decisivo: influenzano le buone o cattive abitudini alimentari dei bambini tanto quanto gli ingredienti nel menu.
Il linguaggio, si sa, è l’espressione delle nostre emozioni e dei nostri pensieri, che vengono veicolati ai bambini attraverso i vocaboli che scegliamo. Ci sono, per esempio, parole che informano e altre che narrano, parole che aprono alla conoscenza o che emozionano e altre che tradiscono pregiudizi o, più semplicemente, che esprimono un giudizio. Da queste ultime occorre guardarsi. A tavola (a casa come al ristorante) usiamo le “parole-giudizio” quando diciamo che un alimento fa bene o fa male, che fa ingrassare o dimagrire, che è etico, che è buono o cattivo… l’adulto le usa a fin di bene e non immagina la loro capacità di ostacolare l’apprendimento. Per una buona educazione alimentare, infatti, i bambini hanno bisogno di contesti privi di giudizi prefabbricati, dove sia possibile raccogliere ed elaborare informazioni liberamente. Purtroppo, prima ancora di avere avuto il tempo di osservare, valutare, analizzare, esplorare, sperimentare e comprendere, il loro pasto è condito con parole conclusive, quasi dei verdetti: «Non ti do i peperoni perché ai bambini non piacciono».
L’alternativa c’è ed è data dalle “parole-informazione”, che saziano la fame di vocaboli, permettono di dare un nome a ogni cosa e sensazione, e arricchiscono la “cassetta degli attrezzi” del pensiero, un tassello alla volta. Le parole-informazione sono per esempio quelle che riguardano i sensi e permettono di descrivere odori, colori, consistenze, sensazioni tattili: bianco, verde, arancione, profumato, freddo, tiepido, caldo, bollente, morbido, duro, cremoso, croccante, viscido, salato, dolce, acido… Ecco che la mela non è più banalmente buona o cattiva; è croccante o farinosa, succosa, bianca, dolce e così via. Parole-informazione sono anche quelle che permettono di fare confronti e di cogliere le differenze: la mela può essere rossa, gialla, verde, ma anche Fuji, Stark, Renetta, e può essere servita intera, a fette, a dadini, grattugiata oppure cotta. Il passaggio dalle parole-giudizio alle parole-informazione è spesso un valido aiuto per superare qualche atteggiamento selettivo.
«La mela non mi piace, è cattiva!», lamenta il piccolo commensale.
«Cattiva? Ma se non l’hai neanche assaggiata! Mmm, che buona! Mangiala che fa bene. Lo dice anche il dottore!», risponde il genitore che adotta parole giudicanti.
«Quale mela non ti piace? Quella gialla? Forse è un po’ farinosa. Oggi proviamo la Fuji, che è dolce, succosa e croccante. Cosa ne pensi?», risponde il genitore che informa.
Se è vero, naturalmente, che questi piccoli cambiamenti di rotta non bastano per riportare sempre l’armonia a tavola, è vero però che le parole-giudizio alimentano i comportamenti selettivi e i rifiuti. Usarle è sempre controproducente. In un contesto libero dal bisogno di assolvere o condannare ogni boccone, anche le sensazioni sgradevoli acquistano nomi interessanti. I bambini dicono che un cibo è “cattivo” quando il loro arsenale linguistico è limitato, ma in un clima accogliente e non giudicante imparano ad “ascoltare” le loro sensazioni e a trovare le parole giuste per descrivere ciò che li disturba. Respingente può essere il colore, il sapore, l’aspetto generale, la consistenza, la temperatura, l’abbondanza della porzione e così via. Oppure si tratta di semplice sazietà. Le parole-informazione aprono la strada alla curiosità del palato verso il nuovo – il formaggio diventa parmigiano, pecorino, primosale; il pomodoro è ramato, perino, cuore di bue – e aiutano ad acquisire maestria in cucina, scoprendo che ogni nome di utensile corrisponde a una funzione utile: il pelapatate, il mestolo, la grattugia, il colino…
Quando ci sediamo a tavola con i bambini, i nostri ricordi d’infanzia affiorano inaspettatamente e ci ritroviamo a pronunciare le stesse frasi che venivano dette a noi: «Mastica bene, non parlare con la bocca piena, stai composto, mangia la verdura che ti fa bene…». Perdere la pazienza ogni tanto è inevitabile, ma non limitiamoci a fare i gendarmi. La tavola non è solo un luogo di vita materiale; è uno degli ultimi luoghi dove ancora si può apprendere l’arte della conversazione in tutte le sue importanti declinazioni. Qui c’è spazio per raccontare, chiacchierare, scherzare, discutere, argomentare, confidarsi.
Ai bambini piace ascoltare i grandi quando riescono a immaginare i mondi narrati. Se discutiamo delle oscillazioni della Borsa di Tokyo, sicuramente li escludiamo dalla conversazione, ma possiamo invece includerli se progettiamo una gita, raccontiamo di quella volta che da piccoli ci siamo arrampicati su un albero di ciliegie o spieghiamo che tanti anni fa nessuno in Europa voleva assaggiare le patate perché si credeva che fossero velenose. Dato che il cibo è il protagonista del momento del pasto, allora parliamone, ma non solo dal punto di vista del dovere e del contenuto nutrizionale: il cibo è cultura, convivialità, storia, tradizione, scienza… gli argomenti sono infiniti.
La cucina, infine, è il luogo del rispetto verbale. È qui che tra uno scherzo e un boccone, esercitandoci tutti a conversare senza prevaricare, possiamo accorgerci che la tavola è anche un’insostituibile palestra quotidiana di democrazia, dove la differenza di gusti e di opinioni arricchisce e fa crescere tutti i commensali.