«Ogni scarrafone è bello a mamma soja», si dice a Napoli. Sarà vero? In realtà, nonostante l’ironia della cultura popolare, c’è molta retorica nella convinzione che per le mamme i figli siano sempre belli e perfetti.
In genere ci pensa la natura, nel corso della gravidanza e del parto, a creare quell’idillio che fa dire a ogni mamma «Il mio bambino è bellissimo». A quelle prime reazioni incantate ne seguono però abbastanza presto delle altre – legate soprattutto ai comportamenti del bambino – che impensieriscono e agitano i genitori: «Perché mi dà fastidio che lui/lei si comporti in questo modo?»; «Sono una cattiva mamma, un cattivo papà?»; «Non lo amo abbastanza?».
Subito dopo la nascita, la scoperta delle differenze fra il bambino immaginato e quello reale mette la madre di fronte alla variabilità delle proprie emozioni nei confronti di suo figlio: si accorge che può sentirsi irritata dal suo modo di piangere, delusa per la sua scarsa reattività, scontenta perché non cresce abbastanza.
Ma come ne parla? Cosa dice a sé stessa, al papà o alla persona che sta condividendo con lei l’esperienza della genitorialità, alla sua stessa madre, alle amiche? C’è una differenza fondamentale fra dire (e dirsi) «Quando Alessia piange così, mi irrito, non la sopporto», e dire: «Alessia è insopportabile, piange continuamente». Nel primo caso si parla della madre, delle sue reazioni e della sua irritazione. Nel secondo caso, invece, si parla di Alessia: è lei a essere insopportabile, a irritare la mamma. Quell’aggettivo rischia però di entrare a far parte dell’immagine di Alessia, della descrizione di “com’è” quella bambina. Quando descriviamo i nostri figli usiamo prevalentemente degli aggettivi – “allegro”, “tranquillo”, “nervoso” – o delle metafore – “piccola peste”, “angioletto”: condividiamo con gli altri un’immagine che rischia però di diventare una caratteristica definitiva che attribuiamo al bambino.
I comportamenti dei bambini nascono dai loro bisogni, sensazioni, emozioni, e sono regolati dalle risposte di chi ha con loro una relazione, in primis i genitori. Si tratta di bisogni fisici (fame, sete, freddo…) e di bisogni affettivi e, fra questi ultimi, uno dei più forti è quello di sentirsi accettati, legato alla paura di essere rifiutati e abbandonati. È essenziale che i genitori diano al bambino la sicurezza di essere accettato; sicurezza in gran parte legata alle modalità di risposta al comportamento del bambino. Le reazioni verbali e non verbali ai suoi atteggiamenti e ai suoi comportamenti sono messaggi che gli comunicano due cose fondamentali: ecco come ti vedo e cosa ti chiedo per essere contento di te.
Gli adulti hanno la responsabilità di gestire con attenzione questi messaggi, e di ricordare che tutto ciò che dicono e fanno si trasforma in una richiesta per il bambino. Se gli segnaliamo che il suo comportamento non ci piace, cosa gli stiamo chiedendo di fare? Di cambiare comportamento o di non essere come invece è?
Quando i comportamenti del bambino producono reazioni che non sono di apprezzamento, accettazione, piacere, è utile riflettere su alcuni aspetti:
A questo punto i genitori potrebbero manifestare qualche perplessità: «Ma allora non possiamo avere nessuna influenza sul comportamento dei nostri figli? Dobbiamo farci andare bene tutto? E dove va a finire il compito di educarli, di guidarli nella crescita?».
Il compito dei genitori è certamente quello di guidare i bambini nella loro crescita; guidarli però non significa volerli cambiare. Se il messaggio che arriva a Diego è «Non vai bene così, mamma e papà vorrebbero che tu fossi diverso», gli sarà molto difficile costruire un’immagine positiva di sé, e a partire da quella trovare il modo più adatto a lui per fronteggiare l’aggressività degli altri. Come comportarsi allora? È bene intanto esercitarsi a non definire il bambino con aggettivi che hanno connotazioni negative («Diego è un po’ troppo pauroso; è troppo arrendevole; è troppo fragile»), abituandosi a vedere, e descrivere, anche gli aspetti positivi dei suoi comportamenti. Dire «A Diego non piace lo scontro. È molto bravo a non litigare, anche quando qualcuno fa qualcosa che gli dispiace» è un buon modo per rendere più flessibile la nostra “lettura” del suo comportamento, e per riuscire a comunicargli l’approvazione e l’accettazione di cui ha bisogno. Ed è proprio quest’ultima che bisogna consolidare: la certezza che l’“immagine” che i genitori hanno del bambino è un’immagine positiva. Che lui/lei “va bene” a mamma e papà.
A volte i genitori trovano difficile utilizzare questa modalità di “rafforzamento” dell’immagine del bambino, come se così facendo venissero meno al loro compito educativo: rendere migliore il proprio figlio. In realtà, il grande compito educativo è quello di rendere i nostri figli capaci di migliorarsi: per farlo, hanno bisogno di una base sicura, che nasce dal vedere negli occhi dei genitori più accettazione che rimprovero o delusione.
psicologa, psicoterapeuta della famiglia e docente di counselling alla Scuola di specializzazione in Pediatria dell’Università di Torino, ha elaborato il metodo del counselling sistemico narrativo, che utilizza nella formazione dei professionisti e negli interventi per lo sviluppo delle competenze genitoriali. Ha fondato la scuola di comunicazione e counselling CHANGE di Torino.