«È proprio come me quando ero bambina! Quando fa così invece no… è tutto te!»: quante volte vi sarà capitato di ascoltare un’affermazione come questa o altre simili? A livello inconscio, probabilmente, cerchiamo nel nostro bambino l’immagine riflessa di noi stessi, quasi a voler dire: «Se mi assomiglia sono contento».
«Cosa ne pensi?» è invece una domanda che va nella direzione opposta e che, a mio parere, viene pronunciata troppo poco in campo educativo. L’accordo tra due o più persone è meno faticoso della divergenza e del disaccordo, condizioni che prevedono discussioni, confronti e compromessi. Con gli adulti è spesso inevitabile; ciascuno sostiene le proprie idee cercando di convincere l’altro o lasciandosi contagiare da nuove prospettive, mentre con i bambini, in molte occasioni, se è possibile si preferisce evitare. Ma siamo proprio certi che ciò giovi allo sviluppo del pensiero critico, dell’intelligenza e del pensiero creativo? Per conquistare creatività intellettiva, infatti, è necessario “allontanarsi” dal parere altrui, non darlo per scontato e valutarlo per poi scegliere se discostarsi o riavvicinarsi. Come tutte le competenze, quindi, anche il pensiero creativo necessita di esercizio, fin dalla prima infanzia.
Una decina di anni fa, durante il mio lavoro di maestra, rimasi molto rattristata quando una bambina di 4 anni, alla mia domanda «Cosa vuoi fare?», mi rispose: «Non lo so, scegli tu. Io non sono capace». La sua consapevolezza mi aveva turbato, e impiegammo diverso tempo a far sì che la bimba diventasse consapevole di ciò che le piaceva o non la interessava, di ciò in cui era abile oppure no. «Non prendere quello, non ti piace»; «Scegli questo, quello è brutto»; «Non essere triste, non serve»; «Sbagli a pensare così»… frasi come queste – anche se espresse con il desiderio di aiutare, indirizzare e non far “tribolare” il bambino – dovrebbero essere ridotte al minimo, dando la preferenza a espressioni che stimolino in lui la riflessione. Facciamo qualche esempio: «Non sono certa ti possa piacere, ma se vuoi provare, prova!»; «A me non piace, ma se vuoi questo puoi prenderlo»; «Sei triste? Mi dispiace. Posso aiutarti a stare meglio?»; «Io la penso diversamente». L’opinione del genitore è importante in quanto educatore e modello per il bambino, ma le sue idee e scelte non dovrebbero essere percepite quali uniche vie possibili.
Educare alla libertà di pensiero non significa però scaricare sul bambino responsabilità che non gli competono. La differenza è sottile, ma fondamentale. Se chiediamo a un bambino di 3 anni cosa voglia per cena o cosa desideri indossare per uscire, non gli stiamo concedendo libertà; al contrario, lo stiamo sovraccaricando di responsabilità. Un bambino di 3 anni non ha le competenze per decidere l’intero menu (bilanciando proteine, grassi e carboidrati in base all’alimentazione dei giorni precedenti), così come potrebbe optare per delle infradito in pieno inverno. La libertà di scelta va contenuta all’interno di un terreno governabile e gestibile in piena autonomia dal bambino; di conseguenza, se desideriamo coinvolgerlo nella scelta del menu, potremmo porgli una domanda simile: «Sei d’accordo se metto la zucca nel minestrone? O preferisci il porro? Per me è indifferente, ho entrambi». E così per il vestiario: lasciare che il bambino opti per la maglia a righe o a tinta unita significa offrirgli un’occasione di “sana” libertà.
«Non piangere»; «Non preoccuparti»; «Non essere triste»; «Sii contento»; «Fai un sorriso» sono frasi comuni che, dal punto di vista dell’adulto educante, nascono con l’intento di incoraggiare, aiutare, sostenere. Ma spesso il proprio sentire emotivo non è gestibile a comando ed è un diritto del bambino provare e manifestare le emozioni che sente anche quando l’adulto che gli è accanto le ritiene incomprensibili o diverse dalle proprie. Ciò di cui è responsabile l’adulto è la modalità attraverso cui il bambino le manifesta, che deve essere “socialmente accettabile”, ovvero non dannosa per gli altri (aggressività), per il bambino stesso (autolesionismo per la rabbia) o per l’ambiente (violenza verso le cose). Ma il sentimento, qualunque esso sia, è lecito. Ciò che preoccupa la mamma forse non preoccupa il bambino, ciò che diverte il papà magari è insignificante per il piccolo. Allo stesso modo, un accadimento spaventoso per il bambino non genera le stesse emozioni nei genitori. Educare all’empatia significa dare al bambino occasioni per leggere sia le emozioni proprie sia quelle altrui. E a essere empatici si impara da bambini.
Il sentire emotivo di fronte alle diverse situazioni non è statico, ma dinamico: il bambino dovrebbe comprendere che come crescono i suoi piedi o i suoi capelli, così crescono le sue competenze, evolvono i suoi gusti e le sue emozioni. Come dire: «Ciò che oggi ti spaventa, domani forse ti farà sorridere, ma oggi è giusto permetterti di sperimentare la paura, dovuta probabilmente a una mancanza di esperienza, e starti accanto nella gestione delle emozioni».
«E ciò che penso io non vale nulla?», potrebbe lecitamente chiedersi un genitore. Certo che vale! Per il bambino, soprattutto nel secondo periodo di sviluppo tra i 6 e i 12 anni, è fondamentale. Il genitore è modello ed esempio di giustizia e verità, e la sua responsabilità sul terreno dell’educazione morale è immensa, perché getta le basi per lo sviluppo del bambino, dell’adulto che sarà. Più avanti negli anni, il bambino valuterà quei valori che ha sperimentato e ricevuto in eredità, guardandoli con occhi critici e maturi, facendoli propri e decidendo di tramandarli a sua volta o custodirli quali esperienze passate.
Quindi? Il genitore ha il diritto e il dovere di esprimere il proprio parere e manifestare il proprio sentire esattamente come il bambino, offrendo il proprio punto di vista con umiltà e pazienza: a volte il bambino troverà risposta ai suoi interrogativi nel modello genitoriale, altre volte no.
formatrice, pedagogista e autrice, progetta e coordina servizi per la prima infanzia e svolge corsi di formazione per insegnanti e genitori sulla pedagogia montessoriana. Autrice del libro Qui abita un bambino edito da Uppa Edizioni, cura la rubrica "Tra il dire e il fare" su Uppa.