Un recente reportage del New York Times ha richiamato l’attenzione sui potenziali danni di alcune sostanze comunemente presenti negli ambienti di vita per le donne in attesa e per il feto. Il discorso si inquadra nel più ampio tema dei pericoli per la salute collegati a prodotti dell’attività umana, che nel corso del tempo è stato oggetto di studi sempre più approfonditi e, anche se rimangono ancora notevoli margini di incertezza dovuti a certe difficoltà tipiche di queste ricerche, è possibile trarre alcune conclusioni.
Come sottolinea Giuseppe Primavera, pediatra di famiglia e membro del Gruppo Pediatri per un Mondo Possibile (PuMP) dell’Associazione Culturale Pediatri, «la fase embrio-fetale, durante la quale si formano tutti gli organi, è molto delicata e può essere influenzata negativamente da migliaia di molecole presenti nell’ambiente. Molte di queste hanno una tossicità diretta sulle cellule, altre hanno una conformazione molto simile a quella dei nostri ormoni e possono fornire informazioni sbagliate, che rimangono impresse nel nostro DNA e possono dare effetti negativi anche a grande distanza di tempo, potendo essere trasmesse da una generazione all’altra. Per fortuna alcuni di questi cambiamenti sono reversibili.
La lista delle sostanze che sarebbe bene evitare in gravidanza è lunga, ma bisogna anche considerare che la donna arriva in età fertile con un fardello di inquinanti depositati nel suo organismo, che dipende dal posto in cui è nata, dalla sua alimentazione, dal suo ambiente di vita e di lavoro. L’inquinamento dell’acqua, dell’aria e della terra è talmente diffuso che è impossibile evitarlo del tutto. Possiamo però limitare un ulteriore carico, con opportune scelte e comportamenti. Purtroppo da vari studi di sorveglianza emerge che le famiglie hanno scarsa consapevolezza delle fonti di inquinamento, specialmente in ambiente domestico (inquinamento indoor). I medici parlano poco o niente di questi argomenti, i genitori si informano sui media, da fonti spesso poco attendibili».
Per fare qualche esempio, passiamo in rassegna alcune delle possibili fonti di sostanze tossiche per gli esseri umani in generale e, più nello specifico, per le donne in attesa e il loro bambino. Come si diceva, anche la nostra casa ci espone a rischi. Sottolinea Giuseppe Primavera: «Va posta particolare attenzione all’ambiente domestico, dove trascorriamo buona parte del nostro tempo, ora anche costretti dalla ben nota situazione sanitaria.
L’aria all’interno delle abitazioni è spesso più inquinata di quella esterna, perché alle sostanze presenti nell’aria esterna se ne aggiungono altre, proprie dell’ambiente interno. Tra queste ci sono il fumo di tabacco, attivo e passivo; i composti organici volatili (VOC), come il benzene e la formaldeide, contenuti in molti arredi, colle, vernici, prodotti per la pulizia, profumi; i ritardanti di fiamma, presenti nella gommapiuma dei divani, tappeti e apparecchi elettronici; i gas che si sprigionano in cucina dalla cottura degli alimenti (se il riscaldamento è assicurato da stufe o caminetti la quantità di questi gas aumenta in modo considerevole); i prodotti per la pulizia della casa; insetticidi e antiparassitari per animali domestici; polveri di toner per stampanti, sostanze utilizzate per realizzare oggetti in plastica e da questa rilasciate nell’ambiente, come bisfenolo e ftalati; la polvere delle nostre case contiene un mix di tutte queste sostanze con cui, ricordiamolo, il bambino piccolo, con i suoi comportamenti (gattonare, mettere tutto in bocca…) viene facilmente in contatto».
Altri pericoli sono collegati al diffuso inquinamento dell’ambiente: «Moltissime sostanze, tra cui i sottoprodotti di molte attività lavorative, non sono biodegradabili e possono in diversi modi disperdersi e contaminare l’acqua e il terreno. Molte di queste appartengono ai cosiddetti inquinanti organici persistenti, che si accumulano nell’ambiente e tramite le catene alimentari raggiungono il nostro organismo, dove tendono a legarsi soprattutto ai tessuti grassi, anche per molti anni», aggiunge Primavera.
Focalizziamoci sulle sostanze perfluoroacriliche, indicate con la sigla PFAS. Si tratta di una serie di composti comunemente adoperati in diversi tipi di lavorazioni industriali, alcuni dei quali caratterizzati da una lunga persistenza nell’ambiente, che rende possibile il fatto che entrino nelle falde acquifere e, in ultima analisi, nell’alimentazione umana. Le PFAS sono adoperate in molti settori, tra cui la concia delle pelli, la fabbricazione di carta e cartone (anche quelli destinati a prodotti alimentari), la realizzazione di pentole e padelle antiaderenti, di materie plastiche, di schiume antincendio, prodotti cosmetici, detergenti per le pulizie domestiche, tessuti impermeabili, eccetera.
«Tra le norme per ridurre l’esposizione a questi composti, ricordiamo quella di usare pentole e padelle antiaderenti solo se in buone condizioni, perché se usurate possono contaminare i cibi. Si può, inoltre, evitare l’uso di pellicole per alimenti, oggetti in plastica monouso e contenitori di plastica, che non dovrebbero mai essere adoperati per scaldare i cibi, in quanto il calore facilita il passaggio di sostanze tossiche», sottolinea Giuseppe Primavera. Ricordiamo, inoltre, l’enorme impatto ambientale della plastica, che ci dà buone ragioni per limitarne l’impiego.
Tempo fa alcune inchieste giornalistiche hanno contribuito a puntare il dito contro certi stabilimenti industriali, in particolar modo del Veneto, i cui scarichi illegali hanno nel tempo portato a una contaminazione dell’ambiente che ha causato alti livelli di PFAS nel sangue della popolazione dei comuni toccati dal fenomeno.
Si ritiene che questi composti rientrino nei cosiddetti “interferenti endocrini”, cioè sostanze in grado di interagire con il sistema endocrino, che attraverso gli ormoni regola una buona parte delle funzioni dell’organismo umano. Sussistono forti preoccupazioni che questa azione possa tradursi in problemi di varia natura, tra cui disturbi metabolici, della fertilità e anche tumori (dal momento che diverse forme di cancro sono legate a fattori ormonali).
«Purtroppo non è semplice riuscire a misurare l’effetto preciso di queste sostanze sull’organismo umano», ci ha detto Maurizio Bonati, che dirige il Dipartimento di Salute Pubblica e quello per la Salute Materno Infantile dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano. «Dobbiamo tenere presente che si tratta di sostanze che sono state e sono largamente impiegate in molti settori, entrate in tantissimi oggetti di uso comune e quindi è realmente complicato evitare di entrarvi in contatto», aggiunge il ricercatore.
Ma per valutare in maniera corretta i rischi per la popolazione e, più specificatamente, su gestanti e nascituri, bisogna fare una considerazione: «Il problema principale delle ricerche su queste sostanze riguarda l’entità dell’esposizione sulla popolazione generale. Se si escludono i casi di esposizione professionale (cioè le persone che lavorano in aziende che producono tali composti), più semplici da valutare, la presenza di queste sostanze in numerosissimi prodotti e ambienti rende difficile capire quanto il singolo vi entri in contatto. Questa considerazione mantiene molti degli studi nel campo della probabilità e non è chiarissimo il nesso causa-effetto sui problemi di salute», aggiunge Bonati.
Nonostante le oggettive difficoltà, gli studi che nel tempo si sono accumulati suggeriscono la possibilità di effetti pericolosi anche su mamme e bambini. Continua Bonati: «Un recente studio [1] , per esempio, ha messo in evidenza come la concentrazione di PFAS nel sangue in gravidanza sia associata a un aumento della concentrazione di grassi nel sangue.
Un altro studio [2] pone l’accento su effetti che si possono verificare addirittura attraverso le generazioni, mostrando come l’esposizione a PFAS delle gestanti sia associata a obesità soprattutto nelle generazioni successive. In pratica, i livelli più elevati di una delle sostanze appartenenti alle PFAS misurati nelle nonne aumentavano il rischio di obesità nelle nipoti.
Un ulteriore studio [3] del medesimo gruppo di ricerca associa l’esposizione a questa tipologia di PFAS in utero, unita a livelli alti di colesterolo, a un aumento dell’incidenza di cancro al seno».
Le ricerche in corso, e soprattutto le considerazioni relative alla difficoltà di individuare ed evitare tutte le fonti di esposizione a questi composti, mettono in luce l’importanza del rispetto per l’ambiente, anche al fine di tutelare la salute umana. «Nello specifico caso delle PFAS, per esempio, è essenziale procedere a uno smaltimento corretto di queste sostanze, affinché non raggiungano le falde acquifere o la catena alimentare in altri modi. In tal senso l’impegno concreto, anche del comune cittadino, può essere molto efficace, perché esercita una pressione sulle autorità politiche e le amministrazioni locali», aggiunge Bonati.
«È bene pensare alle diverse azioni di prevenzione, piccole e grandi che siano, in positivo e non come prescrizioni oppressive, perché ogni comportamento virtuoso rappresenta una protezione per il nascituro, ma anche un piccolo passo verso un mondo più pulito e un piccolo aiuto al contrasto del cambiamento climatico. Si sta cercando di affidare ai nostri figli un pianeta più vivibile», conclude Primavera.
Divulgatrice scientifica, è socia effettiva e presidente della sezione pugliese del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) e membro del direttivo dell’associazione professionale di comunicatori della scienza SWIM. Scrive per diverse riviste cartacee e online, tra le quali Le Scienze, Mind, Uppa, Focus Scuola, Wired.it, Wonder Why, Scientificast.