I numeri sono allarmanti: un’indagine condotta da Doxa e OVOItalia (l’Osservatorio italiano sulla violenza ostetrica) e relativa agli anni dal 2003 al 2017 riferisce che il 21% delle madri in Italia dichiara di aver subito una forma di violenza ostetrica. La percentuale equivale a un milione di donne, che hanno valutato come umiliante, irrispettosa o lesiva la modalità attraverso la quale sono state accompagnate dal personale medico-sanitario in un momento importante come quello del parto.
Il 41%, cioè 4 donne su 10, ha dichiarato di aver subito pratiche lesive della propria integrità psicofisica; il 33% non si è sentito adeguatamente assistito e il 6% delle donne, in seguito alla brutta esperienza vissuta, ha deciso di non avere altri figli.
Ma il problema, come è immaginabile, non è circoscritto al territorio nazionale e i dati su condotte inquadrabili come violenza ostetrica provengono da tutto il mondo e sono stati oggetto di un recente rapporto ONU. Nel 2019, il Consiglio d’Europa si è fatto promotore di una risoluzione con lo scopo di garantire il rispetto della dignità e dei diritti della donna nell’accompagnamento alla gravidanza e nel corso del parto.
Nella risoluzione si sottolinea la necessità di stabilire percorsi formativi per la prevenzione e, inoltre, meccanismi di segnalazione, denuncia e sanzione, ma anche l’importanza di garantire buoni condizioni di lavoro agli operatori sanitari, poiché questo è direttamente collegato alla qualità dell’assistenza e dell’accompagnamento prestati.
Recentemente il governo e il ministero delle pari opportunità spagnoli hanno annunciato che la violenza ostetrica verrà riconosciuta come forma di violenza di genere. In effetti, è evidente che gli stereotipi di genere e i loro retaggi culturali costituiscono un terreno di coltura che favorisce la violenza ostetrica e ne ostacola il riconoscimento e la denuncia.
Sulle modalità di intervento per affrontare il problema, abbiamo chiesto il parere di Paola Pileri, dirigente medica, specialista in Ginecologia e Ostetricia, con esperienza di attività in grandi sale parto e nell’insegnamento universitario e in scuola di specializzazione.
«A mio avviso – ci ha detto – per affrontare in modo realmente efficace il problema della violenza ostetrica è necessario un passaggio culturale che non è stato ancora compiuto e che favorisca l’instaurarsi di una comunicazione più serena ed efficace tra tutti gli elementi coinvolti: operatori sanitari, partorienti, famiglie, e che intervenga sull’intero contesto sociale.
Sul piano strettamente didattico, ovvero della formazione del personale sanitario relativamente alle pratiche più corrette sulla base delle evidenze scientifiche, si insiste molto nel corso degli anni universitari e della specializzazione, ma resta ancora tanto da fare da altri punti di vista».
Continua Pileri: «La preparazione intorno alle cosiddette “cure amiche della mamma” — secondo la definizione adoperata da Unicef, che si è fatta promotrice delle buone pratiche suggerite dalla ricerca scientifica e promosse dall’OMS — è ormai assodata nella formazione degli operatori sanitari, in particolar modo per coloro che hanno a che fare con l’accompagnamento alla nascita».
Tra le raccomandazioni in questione c’è la garanzia di un ambiente tranquillo e la limitazione del numero di operatori a quelli necessari; la possibilità di avere accanto una persona scelta dalla partoriente per sostenerla durante tutte le fasi; la possibilità di scegliere posizioni comode e metodi per alleviare il dolore con l’aiuto del personale ostetrico; la disponibilità dell’analgesia; il fatto di non prevedere di routine clisteri, rasatura dei peli pubici e catetere vescicale e di non accelerare i tempi del travaglio senza che ve ne sia l’esigenza; allo stesso modo si praticherà l’episiotomia solo quando necessaria e così via.
Sottolinea Pileri: «Tutte queste indicazioni, fondamentali per garantire il benessere della partoriente, sono ben conosciute da studenti e specializzandi, perché oggetto di grande attenzione. D’altra parte, bisogna ricordare che le procedure mediche sono stabilite da protocolli internazionali, condivisi e promossi dalle società scientifiche. Questo, però, da solo non basta, senza un cambiamento sistemico di mentalità.
Dobbiamo, per esempio, pensare al personale medico-sanitario come a una serie di figure che si pongono come garanti della correttezza e scientificità delle procedure, pronte a intervenire attivamente in caso di difficoltà o patologia, ma con un ruolo di accompagnamento e osservazione quando ci si trova di fronte a una gravidanza e a un parto che si svolgono senza problemi e che rientrano perfettamente nei parametri fisiologici, senza spingersi al limite dell’ipermedicalizzazione».
In questo senso, assume un ruolo centrale anche la scelta delle parole, per i messaggi, espliciti o impliciti, che vi sono racchiusi. «Per esempio, – aggiunge Pileri – il personale sanitario non dovrebbe mai dire cose come: “Ho fatto partorire” o “Ho fatto nascere”, perché è la donna che partorisce ed è il suo bambino o bambina a nascere. Gli operatori sanitari li aiutano in un percorso che può avere delle difficoltà, ma non devono diventare i protagonisti dell’evento, che restano madre, neonato e famiglia coinvolti.
Allo stesso modo, ogni espressione fredda o colpevolizzante (per esempio: “Abbiamo dovuto usare la ventosa perché non riesci a spingere”) può avere un impatto fortissimo su una partoriente e lasciare segni profondi, che costituiscono un trauma.
Una buona comunicazione può essere adoperata anche quando si deve agire d’urgenza, come spesso accade nel corso di un parto che presenta delle difficoltà. Pur senza scendere nei dettagli (poiché i tempi non lo permettono) è comunque possibile informare la donna delle procedure che si eseguono, per renderla partecipe, e accompagnare queste informazioni con espressioni che contribuiscono a rafforzare il clima di fiducia.
Naturalmente il tutto risulterà più efficace se questa fiducia è stata costruita nel tempo attraverso una condivisione delle scelte, che è l’obiettivo al quale si dovrebbe tendere».
Secondo l’esperta non è, quindi, la singola pratica a costituire il nucleo del problema, ma soprattutto il clima generale e il coinvolgimento attivo della madre, e anche del padre, nelle varie fasi e nelle varie scelte.
«La stessa procedura può essere, infatti, traumatica e costituire violenza se imposta alla partoriente o se accompagnata con espressioni paternalistiche e giudicanti e, al contrario, può essere vissuta e accettata con serenità se il personale medico e ostetrico ha reso la donna partecipe, attraverso un vero consenso informato, che non si riduca a una mera formalità, condividendo le motivazioni alla base di ogni scelta. Quando si agisce in questo modo, tutto viene vissuto con più serenità e, a parità di procedure, non si configura una condotta abusante o violenta», mette in rilievo l’esperta.
Ma è anche importante non agire solo nell’ambiente ospedaliero. Aggiunge Pileri: «Io credo che sia necessario ripensare il concetto di punto nascita, stabilendo percorsi personalizzati, a misura del singolo caso, differenziati per le gravidanze a basso rischio e per quelle più complesse, in cui ci sia un minore o maggiore ricorso all’intervento medico in base alle necessità.
E penso anche che sia fondamentale agire sull’intero contesto, ripartendo dal territorio e da tutti quei servizi che dovrebbero sostenere le madri e anche i padri nel corso della gravidanza, perché possano arrivare pronti al momento del parto e in grado di gestirne senza eccessiva ansia le varie fasi. Anche la preparazione del padre è importante, proprio perché capita spesso che non sia in grado di essere d’aiuto e sostegno alla partoriente in quanto non adeguatamente coinvolto fin dai mesi precedenti».
Fuori luogo è ogni tentativo di ridimensionare il problema della violenza ostetrica negandolo o tentando di circoscriverlo: «Credo che sia importante fidarsi della testimonianza delle donne – dice Pileri – e credere alle loro segnalazioni. Se le partorienti percepiscono il problema, questo indubbiamente esiste, anche quando, sul piano strettamente medico, si eseguono procedure corrette. Un intervento sistemico sulla comunicazione con gestanti e famiglie, che coinvolga tutti gli elementi del contesto ospedaliero e territoriale, è quindi il primo punto da cui partire».
Divulgatrice scientifica, è socia effettiva e presidente della sezione pugliese del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) e membro del direttivo dell’associazione professionale di comunicatori della scienza SWIM. Scrive per diverse riviste cartacee e online, tra le quali Le Scienze, Mind, Uppa, Focus Scuola, Wired.it, Wonder Why, Scientificast.