Nonostante si senta più spesso parlare di linee guida per la prevenzione del sovrappeso e dell’obesità, nell’alimentazione dei più piccoli si possono incontrare anche altre difficoltà. Se infatti ci si trova davanti a bambini che non mangiano o che escludono dalla loro alimentazione una grande categoria di cibi, ci si può sentire spaesati e non in grado di gestire il rifiuto. In questo articolo andremo ad analizzare alcuni aspetti importanti legati a questo tema.
Innanzitutto è bene sapere che il tentativo di forzare i bambini che non mangiano ad assaggiare i cibi in tavola – usando magari frasi come «Su, l’ho preparato per te!» o «Non ti alzi fino a che il piatto non sarà pulito!», o ancora «Due bocconi appena, dai!» – sortirà l’effetto opposto, soprattutto sul lungo periodo. Questa “pressione” da parte dell’adulto, infatti, è controproducente e deve essere evitata, perché non insegna al bambino a rimanere in ascolto dei propri segnali interni di fame e di sazietà, né in accordo con le proprie preferenze alimentari. Attraverso questa modalità, infatti, il bambino prenderà dei riferimenti esterni (il piatto vuoto, la mamma o il papà accontentati, il premio promesso, eccetera) per capire se mangiare ancora o fermarsi, perdendo di fatto fiducia in ciò che sente. Inoltre, ricatti, minacce o promesse di premi e punizioni non solo non ottengono l’effetto desiderato di far mangiare il bambino, ma possono essere controproducenti per lo sviluppo della relazione educativa tra genitori e figli.
I genitori spesso ricorrono a queste pressioni perché spaventati dall’idea che il loro bambino non stia mangiando a sufficienza o che addirittura possa incorrere in gravi carenze nutrizionali. Per questi aspetti è sicuramente utile un confronto con il proprio pediatra di riferimento, che rileverà tutti i parametri relativi alla crescita del piccolo e potrà rassicurare i genitori o decidere di approfondire la situazione.
Spesso invece sembra che il bambino non mangi a sufficienza quando in realtà, se lasciato libero di scegliere ciò che gli piace e accetta di mangiare, riesce a coprire i propri fabbisogni calorici, non creando ostacoli alla crescita. In questo caso potremmo trovarci di fronte alla cosiddetta “fase della neofobia”. Questa fase, fisiologica nello sviluppo di un bambino, è caratterizzata da un irrigidimento delle scelte alimentari con una conseguente possibile diminuzione sia della varietà, sia della quantità del cibo consumato.
Non è inusuale sentire raccontare dai genitori cose come “il mio bambino di due anni ha sempre mangiato tutto con gran gusto, ma da qualche tempo ha iniziato a scartare tutte le verdure se le vede nel piatto”, oppure “ho preparato quello che fino a qualche giorno fa era il suo piatto preferito e non l’ha nemmeno voluto assaggiare!”. Come non citare poi le famose richieste di pasta in bianco, così tipiche di questo periodo, anche da parte di bambini che hanno sempre assaggiato tutto.
Cosa fare se i bambini rifiutano il cibo? È importante anzitutto mantenere la calma e non prendere il rifiuto come un affronto personale o una modalità di sfida nei nostri confronti. Gli studi mostrano che possono essere necessarie fino a 15 esposizioni a un alimento, ripetute e ravvicinate, affinché un bambino prenda confidenza con esso e decida di mangiarlo. Si tratta di un vero e proprio percorso di familiarizzazione con il cibo che, finché non verrà considerato dal bambino come conosciuto e familiare, quindi sicuro, non verrà consumato. Solitamente invece accade che i genitori si fermino molto prima e smettano quindi di proporre l’alimento, convinti che non possa piacere al bambino.
Aiutare il bambino a familiarizzare con un determinato cibo significa, quindi, esporlo più volte alla sua presenza, evitando di forzare l’interazione con esso o camuffarlo aggiungendolo a cibi conosciuti senza che ne sia consapevole. Nascondere il cibo porta alla diffidenza verso chi cucina, non all’accettazione dell’alimento proposto.
Se desidero che il mio bambino mangi la verdura, quindi, potrei innanzitutto chiedere di aiutarmi nella sua preparazione, con piccoli compiti adeguati all’età, come lavare, tagliare, travasare in una pentola, aggiungere il sale, eccetera. Dovrò poi aspettarmi che potrebbero essere necessarie più proposte prima che il bambino desideri assaggiare. Per questo motivo, non bisognerebbe smettere di proporre un alimento ai primi rifiuti, ma continuare a servirlo, magari utilizzando ricette differenti, anche un paio di volte a settimana.
Qualche volta, non sapendo cosa fare se il bambino non mangia o scarta il cibo, si è portati a offrire delle alternative. Ecco che se, per esempio, al piccolo non piace il risotto previsto per cena, gli si propone una pasta in bianco, poi il prosciutto, lo yogurt o qualche grissino. Alcuni genitori invece chiedono direttamente al bambino che cosa desidera mangiare, e cucinano quel piatto in qualsiasi momento della giornata. Nonostante le buone intenzioni, è bene sapere che anche questa modalità non si rivelerà utile nel lungo periodo.
Un primo messaggio che il bambino riceve indirettamente è la perdita della funzione guida dei genitori, che dovrebbero trasmettere “la regola” rispetto all’alimentazione: sono loro a dover decidere cosa è bene mangiare, non può essere una responsabilità del bambino piccolo che non ha le competenze per scegliere in maniera adeguata. Quando la funzione regolatrice dei genitori viene a mancare, il bambino che non ha un riferimento sicuro, va in confusione, e nascono ad esempio i cosiddetti “capricci”.
In sintesi, il messaggio che recepirà il nostro bambino sarà: «Ho ragione a dubitare del risotto: la pasta in bianco o i grissini sono effettivamente più buoni!». In altre parole, l’alternativa viene elevata ancor di più e investita di un potere speciale, mentre il cibo rifiutato viene visto come ancor più disgustoso. Altrimenti perché sarebbe necessaria un’alternativa o addirittura un premio per sforzarsi a mangiarlo? Pensiamo al classico «Potrai avere il biscotto quando avrai terminato le verdure». Ciò che il bambino percepirà in questo caso sarà: «Ma quanto sono terribili le verdure se, dopo averle mangiate, ogni volta ricevo in premio quel buonissimo biscotto?».
Come è meglio procedere, dunque? Una buona idea è fare in modo che sul tavolo, tra le proposte per il pasto, sia presente almeno una pietanza che piaccia al bambino insieme al resto del menù da cui tutta la famiglia potrà attingere. In questo modo sarà sempre presente qualcosa che il piccolo potrà consumare con facilità, ma allo stesso tempo non mancherà l’esposizione a una più ampia varietà di cibi.
Procedendo in questo modo, invece che proporre alternative o far decidere il menù al bambino, si rafforza anche la funzione di guida dei genitori, che lo aiutano fornendo dei limiti chiari entro i quali poter scegliere. Sono proprio i genitori, infatti, ad avere le competenze necessarie per stabilire che cosa è bene mangiare: un bambino è troppo piccolo per fare ciò e non può assumersi questa responsabilità. Se la funzione regolatrice del genitore viene a mancare il bambino non percepirà più di avere un riferimento sicuro ed andrà in confusione. Proprio da questa confusione potrebbero poi scaturire “capricci” e malumori.
La strutturazione di una routine alimentare definita e chiara per il bambino, che si ripeta quotidianamente, risulta fondamentale. Compito degli adulti è abituare, gradualmente e in base all’età, i bambini a un ritmo dei pasti regolare: la regolarità è prevedibile e i bambini imparano così il susseguirsi dei pasti.
Risulta molto importante non consentire al bambino un continuo spilluzzicare tra un pasto e l’altro, attività che non permette un corretto susseguirsi del ciclo fame-sazietà. I bambini devono avvertire un giusto appetito all’inizio dei pasti, perché ciò aumenta sia la probabilità di mangiare a sufficienza sia di assaggiare nuovi cibi. Bisogna poi saper essere flessibili e aperti a eccezioni come feste, scatti di crescita, giornate in cui i bambini fanno molto movimento o sono malati, anche se, in linea generale, impostare una routine adeguata preserva la capacità dei piccoli di alimentarsi adeguatamente da soli.
Le difficoltà con certe categorie di alimenti sono frequenti, tanto che non ci stupiamo poi molto, ad esempio, davanti a bambini che non mangiano le verdure: ciò è dovuto in parte alla consistenza degli ortaggi, non sempre piacevole e di facile masticazione, e al sapore amaro che molti di essi sprigionano. Va detto, infatti, che il bambino nasce con una predilezione verso i sapori dolci, mentre la tolleranza al sapore amaro va allenata. Per questo, proporre ricette in cui le verdure risultino più cremose e con un sapore smorzato può aiutare a renderle più appetibili: un risotto al cavolfiore, delle polpette di spinaci e patate o un pesto con ricotta e zucchine saranno più apprezzati rispetto a un contorno di verdure bollite.
Qualche volta il problema legato ai bambini che non mangiano le verdure e la frutta è la scarsa esposizione a questi alimenti, perché la famiglia stessa ne consuma una ridotta varietà, oppure perché, pensando che al bambino non piacciano, smettono di proporglierli. Se il rifiuto nel momento del pasto risulta forte e avversivo si può pensare di coinvolgere i bambini in altre fasi della preparazione: assegnare al piccolo chef qualche semplice mansione come lavare le verdure, trasportarle nella pentola, aggiungere il sale, pelare o grattugiare le carote, sono attività che favoriscono un approccio sereno e una maggiore conoscenza degli alimenti. In questi momenti è più facile per i bambini fare esperienze positive con il cibo, perché non sentono la pressione di dover mangiare. Anche tagliare una mela per un frullato o per una torta può aiutare un bambino che non mangia frutta ad avvicinarsi a questa tipologia di alimenti senza stress.
Va ricordato sempre che il consumo di pasti regolari in famiglia modella il comportamento dei bambini. Condividere il momento dei pasti, quando è possibile, facilita il consumo di una più ampia varietà di alimenti. Se vogliamo che i nostri bambini mangino frutta e verdura dobbiamo dare il buon esempio: ciò vale più di mille prediche.
Come abbiamo potuto constatare, un certo grado di diffidenza del bambino verso il cibo può rappresentare una fase fisiologica. Quando però questa diffidenza si tramuta in qualcosa di più serio e il momento del pasto diventa una vera e propria battaglia, con scelte alimentari che si fanno via via sempre più rigide e monotone, chiedere aiuto ai professionisti può essere d’aiuto.
In particolare, le situazioni che richiedono attenzione sono:
Se si presentano situazioni come quelle sopra descritte, i bambini che non mangiano e le loro famiglie vanno aiutati a superare questo momento, fornendo loro gli strumenti necessari a far tornare il pasto un momento di serenità e condivisione.
a cura di Giusi D’Urso, nutrizionista
Quando il piccolo è inappetente (o lo è uno dei due fratelli), spesso accade che il pasto si trasformi in un momento difficile da gestire. Chi ha preparato la pappa, con cura e amore, si sente frustrato e inadeguato di fronte al rifiuto perentorio del bambino.
Mi capita spesso di ascoltare mamme avvilite e preoccupate: la frustrazione a volte è tale da spingerle a piangere o esprimere la loro delusione e la loro ansia attraverso la rabbia. Capita e non mi meraviglio, pensando a quanto importante sia per una nutrice alimentare e veder crescere il proprio figlio. Ma poiché, soprattutto per i bimbi piccoli, “la mamma è cibo e il cibo è mamma”, di fronte al rifiuto del bambino possono innescarsi dinamiche poco utili e, a volte, addirittura dannose, sostenute dalla convinzione di avere davanti un piccolo tiranno, testardo ed egocentrico. Suvvia, un boccone per la mamma, uno per il papà e uno per la nonna!
In realtà, quello che spesso accade è che, semplicemente, siamo davanti a un bambino che ha poco appetito, o che ha bisogno di mangiare poco, oppure che non è ancora pronto per quel dato alimento, per quel particolare momento conviviale, per il distacco dai rituali che lo legano alla mamma attraverso l’allattamento. Semplicemente, il bambino può non avere l’appetito che la mamma si aspetta. L’inappetenza di un figlio è un concetto la cui relatività si pone fra i suoi reali bisogni e le aspettative di chi lo nutre.
Se il bambino è sano, cresce normalmente e continua a mostrarsi vivace e allegro, non vi è alcun motivo di condizionarlo con aspettative che non può comprendere, né soddisfare, poiché nel suo istinto e nella sua spinta evolutiva egli ha strumenti insospettabili di autoregolazione dell’appetito e della sazietà.
Insistere significa forzare un sistema evolutosi per migliaia di anni; mostrarsi dispiaciuti significa generare nel bambino il dubbio che egli non sia accettato e amato a causa del suo rifiuto; lasciarsi prendere dall’ansia significa rischiare di compromettere la serenità della corrispondenza armoniosa fra la nutrice e il suo nutrito. Bisogna rispettare, quindi, ciò che ha imparato dalla natura e che noi, invece, spesso abbiamo dimenticato.