Se ripercorriamo questo primo scorcio di secolo, ci sono alcune date che vale la pena di richiamare alla mente:
Ma c’è un’altra data sul calendario: 9 marzo 2020, inizio del lockdown per la pandemia di Covid. A partire dal quel momento, la vita delle nostre famiglie è stata stravolta; ciò che accadeva “fuori”, nel mondo, è improvvisamente entrato nelle nostre case con prepotenza, mettendo tutto in discussione: le immagini delle guerre, quelle dei profughi in fuga, quelle delle bare in uscita da Bergamo o dei sanitari sconvolti dalla fatica. E, a tal proposito, ricordiamoci che famiglia vuol dire anche bambini e bambine, vigili testimoni più o meno silenziosi.
La guerra in Ucraina si innesta sul tempo del Covid senza soluzione di continuità. Due anni di pandemia hanno segnato la vita dei piccoli e degli adulti, e non appena abbiamo avuto la sensazione di poterne uscire, i timidi segnali di speranza sono stati stroncati dalle immagini della guerra: paesi e città che non sono lontane e che vediamo uguali alle nostre vengono bombardate, attraversate dai carri armati, con il suono delle sirene come colonna sonora.
In quanto adulti non solo possiamo, ma dobbiamo mettere in atto provvedimenti che preservino i bambini dalla violenza e dalle emozioni troppo veementi. Vanno protetti soprattutto i più piccoli, che hanno meno strumenti per “governare” l’onda d’urto bellica che ci sta investendo (in questo articolo abbiamo parlato di come spiegare la guerra ai bambini).
Un’ulteriore considerazione è che i bambini sono già stati messi a dura prova dal Covid e quindi il possibile stress derivante dall’esperienza di questi giorni può essere più forte di quello che potremmo aspettarci. Vediamo di seguito alcuni spunti pratici.
Stanno arrivando tante immagini del conflitto in Ucraina, ne bastano poche per impressionare i bambini: i rifugiati nella metropolitana, i palazzi sventrati, i tank che percorrono le strade, le sirene, i missili. La forza di quello che vediamo porta inevitabilmente i nostri figli a chiedersi: «Accadrà anche a noi?». Sentire che l’Italia chiude lo spazio aereo all’aviazione russa significa parlare di qualcosa che sta accadendo effettivamente a casa nostra.
La posizione di chi educa richiede un’assunzione di responsabilità, ovvero decidere cosa i nostri bambini possono o non possono vedere alla TV, così come ci preoccupiamo di cosa mangiano o di come sono vestiti. Siccome le trasmissioni sono in diretta e non sappiamo in anticipo cosa stanno per mostrare, quello che possiamo fare – drasticamente – è non accendere il televisore, o non lasciarlo acceso quando i nostri figli potrebbero guardarlo. Ricordiamoci che molti bambini all’epoca del 9/11 furono turbati dalle immagini trasmesse dai televisori che rimanevano continuamente accesi per seguire quello che accadeva: gli incubi e le angosce hanno accompagnato i nostri piccoli ben oltre la durata delle trasmissioni.
Spegnere la TV rappresenta una decisione molto forte. Qualcuno potrebbe obiettare: «Ma la realtà è quella, non ha senso edulcorarla». Siamo sicuri? Non è che piuttosto rischiamo di trovarci coinvolti in una sorta di voyeurismo mediatico per cui bisogna per forza vedere di tutto e di più? La rincorsa all’audience, allo scoop, passa anche per una sorta di inutile crudeltà delle immagini, alla quale potremmo opporre la nostra obiezione di coscienza di genitori ed educatori.
Se proprio non riusciamo a rinunciare a tutto ciò, quantomeno dobbiamo mediare tra le immagini e i bambini. Come? Spiegando, chiedendo, parlando. Non possiamo lasciare alla TV la gestione del rapporto con i nostri figli, perché soprattutto per i più piccoli è difficile avere la percezione della distanza che c’è tra la situazione rappresentata sullo schermo e la loro realtà concreta: tutto è drammaticamente molto vero, molto presente. Ha quindi senso stare fisicamente vicini a loro, cercando di trasmettergli sicurezza e protezione.
Meglio sarebbe scegliere di seguire le informazioni in orari o in momenti in cui i bambini siano “a distanza di sicurezza”, per esempio in seconda serata.
La rappresentazione, per certi versi più che giustificata, di Putin come un folle carnefice, rischia di trascinare con sé l’intero popolo russo, trasformandolo nel “cattivo” della storia attuale. Le generalizzazioni non aiutano a capire meglio cosa succede, anzi hanno il potere di dare apparenti certezze prive di fondamento.
Possiamo pretendere da noi stessi molto rigore nelle parole che usiamo, nei giudizi che esprimiamo, per esempio non stancarci di motivare le nostre opinioni ai bambini, facendo attenzione ai termini che pronunciamo. Nel caso attuale, ad esempio, far passare il concetto che i russi non sono i cattivi, bensì sono vittime anche loro di questa guerra assurda. Anzi, potremmo spiegare che ci sono tanti russi che sono contrari al conflitto e che stanno soffrendo, come tutte le persone perbene.
Potremmo anche cercare di “ripulire” le nostre conversazioni dalla guerra, evitare cioè un uso militare del linguaggio: rifiutare i toni sprezzanti, i giudizi banali e generici, i luoghi comuni (anche quando sono “dalla nostra parte”), nonché tutta la terminologia, le metafore e i simboli bellici. Frasi come “fare piazza pulita”, “andare all’attacco”, “notizia-bomba” sono solo alcuni esempi. Non si vuole, in questo modo, perorare la causa del politically correct a tutti i costi, ma piuttosto cercare di non abituarci – noi adulti e bambini – a termini che hanno significati precisi e che in questi giorni emergono con tutta la loro carica violenta.
Nel rifiutare la logica dei “buoni e cattivi” c’è anche un’altra considerazione importante da fare. Nelle nostre scuole e asili ci sono bambini russi, ucraini, bielorussi – spesso nati in Italia, che rischiano di scoprire solo ora quanto conta un passaporto. Abbiamo visto dopo il 9/11 che i bambini musulmani venivano presi di mira e discriminati. Possiamo fare in modo che questo non accada di nuovo? La scuola e l’asilo nido devono restare luoghi sicuri per tutti i bambini, e gli adulti hanno il dovere di impegnarsi a garantire che ciò accada. Possiamo rinforzare ed enfatizzare tutte le occasioni in cui i piccoli possono collaborare, stare insieme e mantenere buone relazioni, e possiamo individuare da subito i momenti critici, senza sottovalutarne gli effetti possibili. Tutto ciò significa prevenire ogni forma di discriminazione, anche momentanea.
Ci sono due azioni che aiutano i bambini e le bambine a sentirsi sicuri: la lettura di storie e il gioco.
I libri per bambini sono una fonte inesauribile di buone immagini e sana immaginazione: storie, incontri e scontri, personaggi con caratteri diversi, problemi e soluzioni creative. Non solo, ci danno anche l’opportunità di trascorrere del tempo assieme e creare una situazione in cui noi adulti facciamo percepire ai bambini che ci siamo, che saremo in grado di proteggerli e che non saranno in pericolo.
Il gioco è l’altro “superpotere” che abbiamo a disposizione: è un tempo fra parentesi, di divertimento e di impegno, che serve a crescere e che contribuisce ad alleggerire il clima. Ridere insieme fa bene alla salute di tutti.
Per concludere, non dimentichiamoci di cogliere i segnali di disagio: qualche pipì che scappa, uno sguardo che rimane impensierito più a lungo del solito, richieste di dormire assieme nel lettone più frequenti. Sono tutte azioni che ci dicono che un bambino è preoccupato e che vanno accolte come segnali di normalità. Se però diventano persistenti, il senso di malessere potrebbe aumentare. Quando preoccuparsi allora? Quando si aggiungono paure che impediscono ai bambini di affrontare la quotidianità, ovvero non voler andare a scuola, rifiutarsi di giocare all’aperto con gli altri, avere paura di compiere azioni abituali (ad esempio andare in bagno da soli). In questi casi, l’incontro con una figura professionale può essere utile e aiutare i genitori a risolvere da subito situazioni delicate.