Giulio è un bambino di 2 anni che non parla, non pronuncia nemmeno una parola, e in famiglia stanno cominciando a sorgere delle preoccupazioni. Generalmente le prime parole compaiono tra i 12 e i 20 mesi – un range ampio che sottolinea la grande variabilità che esiste da soggetto a soggetto – e i genitori del piccolo continuano a interrogarsi: «È solo un po’ in ritardo oppure ha qualche difficoltà?… Forse è un parlatore tardivo».
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su questo tema.
Spesso i bambini che non parlano affatto usano i gesti per comunicare e hanno una comprensione del linguaggio nella norma o leggermente al di sotto. Alcuni di questi “sbocciano” tra i 24 e i 36 mesi, recuperando velocemente il ritardo e allineandosi ai loro coetanei.
Secondo la letteratura scientifica, però, nel 30% dei casi il ritardo persiste oltre i 36 mesi di età. Inoltre, anche tra quelli che sembrano aver recuperato possono presentarsi successivamente delle lacune, che possono andare a influenzare l’apprendimento della lettura, della scrittura e del “linguaggio alto” (cioè le abilità linguistiche più complesse: argomentare, usare il registro appropriato al contesto, usare il linguaggio a scopo creativo). In generale, se il bambino di 3 anni non parla, parla poco o parla “male”, è necessario un intervento tempestivo.
A questa età i bambini devono avere modo di allenarsi su sintassi e organizzazione del discorso, e gettare le basi per il metalinguaggio, ovvero le conoscenze su come funziona la lingua (abilità come dividere le sillabe o fonderle per formare una parola, individuare le rime o come inizia una parola eccetera), che sono prerequisiti per la lettoscrittura; chi è impegnato a recuperare potrebbe non aver tempo sufficiente per questi nuovi apprendimenti. Ecco perché la scelta di attendere senza intervenire e vedere cosa accade può essere molto rischiosa.
Una nota particolare riguarda i bambini iperattivi che non parlano: questi due segnali (non parlare ed essere iperattivi), se presenti allo stesso tempo, richiedono accertamenti riguardo alla presenza di un disturbo dello sviluppo (come ad esempio autismo e ADHD).
Le cause del ritardo nel parlare sono di varia natura, poiché il linguaggio è strettamente interconnesso ad altre funzioni, ovvero:
Il ritardo può anche essere semplicemente dovuto ai diversi tempi di maturazione (ad esempio, un bambino che sta evolvendo velocemente nelle competenze motorie, può mostrare minori progressi nel linguaggio), e in questi casi è possibile assistere in poco tempo a un’inversione delle tendenze e a un recupero spontaneo. Se invece le difficoltà persistono nel tempo, potrebbe trattarsi di un disturbo primario del linguaggio.
Un ritardo del linguaggio può anche essere secondario ad altre condizioni più o meno gravi, che quasi sempre vengono individuate già in precedenza, come ad esempio problemi di udito, malformazioni dell’apparato fonoarticolatorio, sindromi genetiche e paralisi cerebrale.
Un luogo comune, erroneamente accreditato tra i motivi per cui i bambini non parlano o parlano molto poco, è la “pigrizia”. Al bambino definito “pigro” viene attribuita una vera e propria colpa, come se quella di non parlare (o parlare male) fosse una scelta precisa e consapevole. Bisogna invece ricordare che i bambini sono geneticamente predisposti per imparare e che cercano di farlo al meglio delle loro possibilità: se non parlano non è di certo per indolenza; sta a noi adulti accoglierli e intervenire se necessario.
Ecco di seguito alcune cose da non fare se il bambino non parla o parla molto poco:
Attenzione anche a televisori e dispositivi elettronici (i bambini al di sotto dei 2 anni non andrebbero esposti agli schermi; quelli tra i 2 e i 5 anni al massimo un’ora al giorno) e ai video e cartoni animati “educativi” annoverati tra le soluzioni per il bambino che non parla. Questi prodotti, infatti, non forniscono un reale ambiente comunicativo: persino nelle proposte migliori, la conversazione rimane a un’unica via, e i personaggi non modificano certo le loro risposte nei casi in cui il bambino cerca di interagire con loro.
Altro luogo comune è che l’ingresso all’asilo nido o alla scuola dell’infanzia possa sbloccare il bambino, in quanto quest’ultimo sarà costretto a parlare per farsi capire da persone nuove. Può accadere spesso che, dopo i primi mesi o addirittura settimane, il bambino inizi a parlare, ma non perché si ritrova obbligato a farsi capire, quanto piuttosto per la possibile stimolazione dei “neuroni specchio” (che si attivano sia quando si compie un’azione, ad esempio con la mano o con la bocca, sia quando la si osserva compiere da altri) e molto più per il potere dell’imitazione: i bambini imparano imitando gli altri, e l’asilo è pieno di ottime occasioni utili in questo senso.
Quando è necessario uno specialista? Come abbiamo detto, uno sviluppo inusuale del linguaggio tra i 18-36 mesi può rappresentare la manifestazione di un semplice ritardo ma anche un segnale di vero e proprio disturbo o di problematiche di natura diversa. Come capire quando è opportuno andare dal medico? In realtà fin dai primissimi bilanci di salute il pediatra avrà modo di individuare la presenza di eventuali campanelli d’allarme, discuterne con i genitori e indicare un opportuno approfondimento. A seconda delle difficoltà riscontrate, il medico potrà eventualmente consigliare una visita dal medico foniatra, lo specialista delle funzioni orali e del linguaggio, oppure dal neuropsichiatra infantile, che si occupa di indagare la presenza di disturbi dello sviluppo. In seconda battuta sarà richiesto l’intervento del logopedista, professionista sanitario che si occupa della valutazione e della riabilitazione del linguaggio, un vero e proprio specialista per bambini che non parlano.