Sotto le macerie del governo Draghi e del Parlamento restano alcuni provvedimenti che le famiglie aspettavano da tempo. Sperando che nel crollo non restino invischiati i progetti finanziati dal PNRR per la costruzione di nuovi asili nido, i cui bandi sono chiusi da diverse settimane, resta sul tavolo un tema protagonista da anni del dibattito politico: le modalità con cui facilitare l’attribuzione della cittadinanza italiana a circa un milione di bambine e bambini, ragazzi e ragazze, nati o cresciuti nel nostro paese, che parlano solo, o principalmente, la nostra lingua, frequentano le nostre scuole, giocano con i nostri figli e condividono le loro passioni sportive o musicali. Minori che non conoscono altra Patria che questa. Che possono conoscere, rispettare, amare la cultura dei genitori o dei nonni, che talvolta trascorrono periodi di vacanza nei luoghi di origine delle loro famiglie, ma la cui vita quotidiana è qui, che il futuro se lo immaginano qui, esattamente come i loro compagni col cognome italiano.
Molti sottovalutano il significato di una semplice dicitura sui documenti di identità. A noi che scriviamo “cittadinanza italiana” quando compiliamo un modulo, può sembrare poco rilevante dover scrivere “afghana” o “peruviana”. Ma è come sottovalutare l’importanza di avere l’acqua corrente che scende dal rubinetto: solo quando manca capiamo il privilegio di cui godiamo nella nostra quotidianità.
Sono le storie di chi ci è vicino che ci aiutano a capire. José è filippino, e a dieci anni era fortissimo a basket. Capitano della squadra in cui giocava uno dei miei figli, tutti contavano su di lui. E contavano su di lui anche in occasione del torneo che si apprestavano ad andare a giocare in Romania. Non era solo un evento sportivo, ma anche una gita che a quell’età significa molto: quattro giorni senza genitori, con allenatori, dirigenti e compagni, in un altro Paese. Risa, scherzi, complicità, racconti da rievocare per mesi. E poi, per molti, anche il primo volo aereo.
Arrivati a Malpensa, però, la doccia fredda. José non può partire. Nessuno aveva pensato a lui come diverso dagli altri. Nessuno si era immaginato che per lui, non essendo formalmente italiano, occorresse una pratica particolare. Nessuno se ne era occupato per il semplice fatto che nulla lo distingueva dai suoi compagni, se non la straordinaria capacità di andare a canestro.
Elias, di famiglia eritrea, è un ragazzo che con i miei figli ha trattenuto il respiro prima di ogni rigore e ha festeggiato a San Siro con loro in maglia rossonera, ma ha anche affrontato con ottimi risultati gli ostacoli di un liceo scientifico noto per il suo rigore. Questo fino ai 18 anni, quando è inspiegabilmente entrato in crisi. Si è un po’ allontanato dagli amici, ha cominciato a peggiorare il suo rendimento scolastico. La processione di ufficio in ufficio per cercare di ottenere quel che doveva già essere automaticamente suo, perché la sua identità pienamente italiana, che nessuno intorno a lui avrebbe mai messo in dubbio, gli venisse riconosciuta, ha colpito duro sulla sua intelligenza e sensibilità. E se i periodi passati in Canada per migliorare la sua conoscenza dell’inglese, ospite del fratello maggiore emigrato là, fossero stati considerati sufficienti per stabilire che non avesse vissuto in Italia “ininterrottamente dalla nascita”? I racconti di quel che accade nella sua terra di origine, il terrore di poter essere magari sradicato e rimandato in uno dei peggiori regimi del pianeta, non lo faceva dormire di notte.
Ecco che cosa significa la cittadinanza. Non un timbro, ma molto di più. Il senso di appartenenza. Non essere sradicati. Sapere di avere un luogo che è casa propria, che non ci rifiuta.
Non ci illudiamo che, se il governo fosse rimasto in carica, il pensiero di Elias, José, Jasmine o Katrina sarebbe stata una priorità per i parlamentari, da settembre alle prese comunque con la legge di bilancio. Il destino di Marisol, Cruz, Abel o Chen sarebbe stato ancora una volta merce di scambio nelle negoziazioni tra i partiti.
Probabilmente non si sarebbe comunque realizzata la possibilità, per i ragazzi entrati in Italia prima dei 12 anni e che hanno frequentato almeno 5 anni di un ciclo scolastico o di formazione, di essere riconosciuti come italiani (non diventare, perché di fatto lo sono già), con l’assenso di almeno un genitore legalmente residente in Italia, come prevede l’attuale proposta di legge denominata “ius scholae”. Una legge ancora restrittiva, di cui potrebbero forse usufruire non più di 300.000 ragazzi della scuola secondaria di primo e secondo grado, perché tutti i più piccoli non possono ancora aver frequentato per cinque anni. Una legge che secondo alcuni sondaggi approverebbero almeno sei italiani su dieci, ma che per ora dovrà ancora aspettare.
Potrebbe e dovrebbe essere uno dei temi della prossima campagna elettorale che va a cominciare. Riguarda l’11% dei minori di 18 anni residenti in Italia. E Uppa non li dimentica.
Laureata in medicina e chirurgia, da trent’anni è giornalista scientifica sui temi della salute. È autrice di libri e collabora con varie testate come Le Scienze e Wired, dopo aver contribuito per oltre vent’anni alle pagine di Salute del Corriere della Sera. Dal 2022 è direttrice di Uppa magazine.