Sono le 17:30 di venerdì e, in una stanza al primo piano con ampie vetrate e pavimento in legno, nove giovani donne sono sedute in cerchio con gli occhi chiusi.
Una di loro, Sara, a un certo punto li apre per guardarsi intorno: fatica a concentrarsi, non ci è più abituata. Come lei Silvia, di poco più giovane, che non riesce a trovare una posizione comoda. Manuela, che guida la meditazione, ogni tanto le invita a tornare sul proprio respiro, a percepire i propri confini, a stare nel “qui e ora”. Non è facile per Sara, cui pare di sentire la voce del suo bimbo che la chiama dal piano di sotto, come spessissimo capita a casa: «Mamma, mamma, vieni!». Da due anni a questa parte quella voce la segue ovunque, anche quando è solo nei suoi pensieri. Diventare madre l’ha cambiata profondamente, aprendo in lei dei canali percettivi che non credeva nemmeno di avere.
Al piano di sotto, intanto, il piccolo Paolo, figlio di Viola, gioca con altri otto bambini di età diverse in una stanza attrezzata per accogliere sia loro sia i giochi che ognuno porta e mette a disposizione per un’ora alla settimana: “l’ora delle mamme”, la chiamano Sara e le altre, l’ora che tutte hanno fortemente voluto organizzare, e far diventare un incontro settimanale fisso, per sé e per il proprio benessere fisico, psichico, relazionale. Insieme hanno affittato lo spazio, assunto un’educatrice e ingaggiato Manuela, a sua volta mamma, che nel corso del tempo ha imparato a ritagliarsi nuovamente uno spazio per la propria persona e le proprie passioni, lo yoga e la meditazione di gruppo prime fra tutte.
Alessia è un’architetta specializzata in edilizia sostenibile. Ama la natura, i cavalli e le lunghe passeggiate in montagna. Fra le montagne, tuttavia, non cammina più da quattro anni: il suo bambino, Nicola, a qualche mese dalla nascita ha manifestato dei disturbi all’udito che non gli consentono di superare certe altitudini.
Alessia, però, non ha rinunciato a ciò che la fa stare bene e che sente come decisivo per la sua capacità di essere una “buona madre”: da libera professionista, infatti, ha combattuto fino allo stremo per ottenere l’indennità di maternità che le spettava e, dovendo tornare presto al lavoro, ha dirottato quel contributo sull’assunzione di una collaboratrice cui affida alcuni dei propri incarichi. Sta col suo bambino più che può e rinuncia, piuttosto, ad avere il lavoro completamente sotto controllo. Il tempo che le resta è tempo che tiene per sé: limitato, forse non del tutto libero, perché rubato sempre ad altro, ma comunque necessario. Nelle ore che riesce a ritagliarsi dai cantieri in corso, Alessia va a camminare, a vedere mostre d’arte vicino al suo luogo di lavoro e a fare piccole arrampicate. La sera, quando torna da Nicola e dal suo compagno, si sente stanca ma rilassata: nel corso del tempo ha imparato a fare pace col proprio senso di colpa.
Anna e Riccardo hanno tre figli di 8, 5 e 2 anni. La loro vita assomiglia alle montagne russe fin dal giorno in cui è nata Camilla, la più grande. Anna, infatti, lavora a turni in ospedale, mentre Riccardo è un programmatore libero professionista. La grande distanza tra le loro attività lavorative, unita a una forte comunanza nelle passioni – il cinema, i viaggi e la cucina messicana, che li ha fatti conoscere –, è stata fin da subito la ricetta vincente che ha permesso di mantenere vivi i loro interessi e di farne, anzi, un punto di incontro per tutta la famiglia.
I loro figli, ad esempio, sono stati abituati fin da subito a mangiare sia in casa che fuori, anche se sempre nel rispetto degli orari più adatti a bambini di quelle età. Con la mamma capita che vadano al cinema di mattina, con il papà che facciano qualche piccolo viaggio quando i suoi periodi di calma lavorativa lo permettono. Una volta a settimana, fanno in modo di ritrovarsi tutti insieme in un’attività comune, che piace ai piccoli ma soddisfa anche i grandi, e che viene proposta e accettata a turno. Non si può dire che ogni cosa funzioni sempre alla perfezione e che non ci sia una certa dose di stanchezza generale, ma Anna e Riccardo sentono di aver trovato per ora un buon equilibrio.
“Equilibrio” è forse la parola chiave quando si parla, oggi, di genitorialità. Quest’ultima non andrebbe vissuta e interpretata all’interno della dicotomia rinuncia-concessione ma, piuttosto, come un sistema di scelte e adattamenti continui che si realizzano tra vincoli e possibilità. Come ritrovare, o costruire ex novo, questo equilibrio?
Innanzitutto, imparando a riconoscere ed esprimere i propri bisogni: siamo genitori ma anche persone con dei desideri, delle passioni, delle esigenze, insomma con una storia. Tutto questo non è, o non dovrebbe essere, inconciliabile con l’impegno e la dedizione, spesso totalizzanti, che i figli richiedono.
Selezionare, adattare, costruire reti e delegare sono verbi che dovrebbero entrare a far parte del vocabolario di base di ciascuno. Circondarsi di rinforzi positivi, capaci di sostenere e favorire queste scelte, dovrebbe inoltre diventare una sorta di abitudine, di buona prassi genitoriale.
L’educazione dei figli, infatti, è di certo appannaggio in primis dei genitori ma, come la nostra storia e l’esperienza di altre società, anche contemporanee, ci insegnano, da un certo momento in poi può diventare una pratica molto più condivisa e distribuita: sia attraverso i legami di sangue che attraverso quelli d’elezione.
Soprattutto, questi riferimenti passati e presenti ci mostrano che l’esperienza della cura ha un carattere sistemico e circolare: così come prendersi cura degli altri spesso ha una propulsione “egoistica” (facciamo del bene alle altre persone per sentirci bene con noi stessi), allo stesso modo per essere presenti e “centrati” nei confronti di un bambino è importante non sentirsi frustrati o limitati nel proprio benessere e nelle proprie aspirazioni.
Per essere dei buoni genitori, insomma, paradossalmente è necessario non essere solo ed esclusivamente dei genitori ma continuare, come e quando possibile, a crescere sé stessi come individui, anzi persone.