Non c’è un momento in cui gli esseri umani iniziano ad aver bisogno di amore, affetto, contatto, vicinanza. Si tratta di un bisogno che nasce con loro. È la naturale continuazione di un rapporto esistente già in utero, che con la nascita prosegue, semplicemente, anche se con modalità diverse. Le capacità sensoriali del feto hanno uno sviluppo graduale, legato anche alle esperienze ambientali, necessariamente limitate in utero ma, comunque, sempre presenti. Nel suo felice, o quasi, Eden amniotico il feto si allena per la lotta alla sopravvivenza che lo aspetta dopo il parto, perfezionando man mano quelle abilità che un occhio attento coglierà con facilità.
L’ecografia fetale, infatti, ha ampiamente dimostrato le capacità di orientamento del feto verso i suoni e la capacità di discriminarli in graditi e non, l’attività respiratoria, la ricchezza e la precisione dei movimenti spontanei e riflessi. Di questi ultimi si ipotizza un ruolo importante nell’impegno e nella progressione lungo il canale del parto, per cui il feto non sarebbe l’oggetto del parto bensì il suo brillante protagonista. Dopo il distacco cruento, apparentemente definitivo, ecco il ricongiungimento con chi lo ha generato, atteso, portato alla luce.
Se il bambino, appena nato, viene lasciato a stretto contatto con la madre, magari pelle a pelle, ritrova qualcosa del suo recente passato nel tepore del contenimento delle braccia materne, nella soddisfazione della suzione al seno che inizia a cercare spontaneamente, senza fretta. Un amarcord ininterrotto che lo induce a pensare che dopo tutto, “fuori”, non si sta così male e si può provare ad aver fiducia in questo nuovo e strano mondo.
D’altra parte, una qualche idea di ciò che avrebbe trovato, il bambino doveva pur averla se ora sa già orientarsi così bene, trovando subito il seno, fissando la mamma negli occhi e accoccolandosi tranquillo e fiducioso fra le sue braccia. Potremmo paragonarlo a un turista che arriva per la prima volta in un paese straniero, di cui conosce solo ciò che altri gli hanno raccontato, e che però sa che ad attenderlo ci sarà una guida molto esperta, che gli può garantire il massimo comfort e la massima sicurezza. Ma immaginatevi come si sentirebbe se, invece, non trovasse nessuno ad attenderlo.
Nutrirlo e tenerlo asciutto: è tutta qui la cura del neonato offerta da molti ospedali che oggi, come cento anni fa, lo considerano insensibile e incapace di sentimenti, negando l’evidenza che le stesse madri intuiscono, cioè la capacità del neonato di instaurare una relazione con gli altri e di assumere nel rapporto con loro un ruolo attivo. In passato, quando la morte di un neonato era frequente, negare queste evidenze poteva essere di aiuto per superare il dolore della perdita dei bambini; allora si poteva rimandare un pieno coinvolgimento nel rapporto tra madre e neonato a quando la sopravvivenza fosse stata certa; ma oggi questo atteggiamento non ha più senso.
Perciò nei reparti di maternità non si può più accettare un’assistenza organizzata come nessuno si azzarderebbe a proporla a un bambino più grande. Chi si sognerebbe mai di impedire a una madre di stare vicino al suo bambino ricoverato in corsia?
Numerosi studi hanno dimostrato i benefici relazionali e fisiologici derivanti dalla vicinanza e, meglio ancora, dal contatto fisico del neonato con il corpo della madre. Un neonato separato dalla madre e portato al nido subito dopo il parto piange molto di più e manifesta segnali di stress (pianto a cicli, livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, più elevati) di un neonato tenuto accanto alla madre.
Inoltre i nati a termine tenuti a contatto pelle a pelle con la madre per i primi novanta minuti dopo il parto mostrano, rispetto a quelli tenuti in culla, un migliore adattamento termico, un più alto livello glicemico (quantità di glucosio contenuta nel sangue) e un più rapido ritorno alla normalità dell’equilibrio acido-base, oltre a una notevole riduzione del pianto.
Mettere il bambino sulla madre pelle contro pelle, attaccarlo al seno già in sala parto, consentire alla mamma di averlo vicino durante il giorno e la notte, non relegarlo nel nido e non dargli aggiunte di latte sono alcune delle pratiche che favoriscono l’attaccamento madre-bambino e soprattutto aumentano la percentuale di bambini allattati al seno, cioè alimentati con il latte migliore che ci sia. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e l’Unicef hanno pubblicato nel 1989 un documento congiunto in cui spiegano quali regole dovrebbero seguire per venire considerati ospedali amici dei bambini. Eccole riassunte in dieci passi:
Ternano, dopo aver lavorato come pediatra ospedaliero, si occupa di formazione nell’ambito dei corsi di preparazione alla nascita presso il consultorio “Città Giardino” di Terni. È uno degli autori storici di Uppa e ha pubblicato numerosi articoli sullo svezzamento su riviste pediatriche e non solo. Nel 2019 è uscita per Uppa edizioni una nuova versione del suo libro “Io mi svezzo da solo!”