L’antropologo Ashley Montagu diceva: «Un essere umano può trascorrere la vita cieco e sordo o completamente privo dei sensi dell’olfatto e del gusto, ma non può sopravvivere senza le funzioni proprie della pelle». Un abbraccio di pochi secondi è in grado di scatenare nel nostro cervello una serie di reazioni chimiche che si traducono in una cascata di effetti benefici: dona una percezione di benessere e sicurezza, diminuisce i livelli d’ansia, fortifica il sistema immunitario, rafforza la fiducia negli altri e l’autostima (soprattutto nei bambini).
Il tatto è il primo senso a svilupparsi nell’utero materno. Già dalla 7° settimana si attiva la prima forma di sensibilità cutanea attorno all’area della bocca, mentre alla 15° è estesa a tutto il corpo. Nello specifico, la pelle ha origine dall’ectoderma, il più esterno dei tre foglietti germinativi dai quali si svilupperà il feto; è interessante notare come si tratti della stessa base cellulare dalla quale nascerà il sistema nervoso. Il fatto che arrossiamo quando proviamo vergogna o impallidiamo dopo un gran spavento ci conferma il profondo legame esistente tra il cervello, sede delle emozioni, e la parte più esterna del corpo, che è la nostra interfaccia con il mondo.
La pelle è l’organo più esteso dell’organismo. Essa è cosparsa, in misura diversa, di un gran numero di recettori sensoriali che inviano al cervello informazioni inerenti il caldo, il freddo, la pressione, il tatto e il dolore. Sono messaggi che viaggiano velocemente e ci permettono di reagire prontamente, mettendoci al riparo dai pericoli. Di recente, i ricercatori hanno individuato delle particolari fibre nervose (fibre C-tattili), che si attivano solo con un movimento che oscilla tra 1 e 10 centimetri al secondo: più o meno la velocità delle carezze. Questo tipo di informazione arriva in altre zone del cervello, facendoci percepire una sensazione di piacevolezza e attivando risposte emotive che promuovono il comportamento affiliativo, fondamentale all’inizio della vita per il rapporto tra madre e figlio e poi da adulti per tutte le relazioni sociali.
Il “contatto buono”, i gesti affettuosi, sono un bisogno essenziale che ci accompagna per l’intero arco dell’esistenza. Esiste, tuttavia, una finestra temporale, quella dell’infanzia, in cui la loro importanza è ancora più grande. In questo periodo il cervello è estremamente plastico, è in grado cioè di cambiare strutturalmente e funzionalmente in base alle esperienze vissute. Questo significa che il modo in cui ci prendiamo cura del nostro piccolo influenza direttamente il suo sviluppo. Per esempio la pratica del massaggio fin dai primi mesi aiuta i bambini non solo a percepire gradualmente il proprio corpo nella sua interezza, ma stimola anche la crescita dei vari sistemi: circolatorio, respiratorio, digerente, nervoso, immunitario, ormonale, linfatico e vestibolare, oltre a influire positivamente sulla relazione.
I benefici derivanti dal contatto affettuoso sono ancora più importanti per i bambini prematuri, costretti a lunghi periodi di degenza nelle unità di Terapia Intensiva Neonatale (TIN). Stare vicino ai propri piccoli in queste situazioni di forte stress fisico ed emotivo porta cambiamenti significativi dei loro parametri vitali, tra cui: aumento di peso, miglioramento dello sviluppo neuromotorio, del battito cardiaco e dei livelli di ossigenazione sanguigna.
Da qualche anno stanno diffondendosi, anche in Italia, modalità innovative per l’assistenza dei neonati pretermine che mettono al centro proprio il coinvolgimento attivo della famiglia, che diventa parte integrante del team di cura. Sono modalità che derivano dai concetti del modello NIDCAP (Newborn Individualized Developmental Care and Assessment Program), nato negli USA negli anni ’80 grazie alla dottoressa Heidelise Als, neuropsicologa e ricercatrice. Apertura della Tin 24 ore su 24, percorsi di accoglienza, tocco dolce, metodo marsupio (Kangaroo Mother Care), sostegno all’allattamento e assistenza guidata da un’attenta osservazione del comportamento del neonato sono solo alcuni dei punti di forza di questo approccio.
Un proverbio africano dice che per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio; questo per significare che i genitori hanno un bisogno fisiologico di ricevere sostegno, consigli, indicazioni, specialmente nei primi mesi successivi alla nascita dei loro piccoli. Un tempo era la famiglia allargata ad assolvere questo compito, oggi invece è la società che tenta di occuparsene. Tuttavia, nonostante le evidenze scientifiche, le informazioni che si ricevono da educatori, esperti e consulenti vari sono talvolta in contraddizione tra loro, soprattutto in tema di cure prossimali (tenere in braccio i piccoli per molto tempo, sonno condiviso, allattamento a richiesta e prolungato…), creando così confusione e disorientamento.
Parte di queste incertezze potrebbe risolversi lasciandosi guidare dalle proprie emozioni e dal proprio istinto, senza necessariamente rincorrere la “cosa giusta”, tra l’altro mai assoluta, e recuperando inoltre la propria capacità critica. Consideriamo anche che cercare la vicinanza dei propri figli, abbracciarli, coccolarli, vezzeggiarli, non è un atteggiamento universale, dunque non aderire a questo stile non pregiudica e non mette in discussione automaticamente le capacità di accudimento. Un carattere introverso o rigoroso, scelte educative orientate a non “viziare”, culture a “basso contatto”, creano ad esempio minori occasioni di contiguità. In conclusione, la cosa importante è cercare di vivere il proprio ruolo genitoriale in maniera “sufficientemente buona”: forti delle proprie certezze e tolleranti con le proprie fragilità, ricordando, come diceva Montagu, che si impara ad amare non perché ce lo insegnano, ma per il fatto stesso di essere amati.