Il feto ha raggiunto una certa lunghezza, ma «non c’è battito. L’attesa si è interrotta». Poche parole che segnano la fine di un sogno, il più bello, quello di diventare madre. Poche parole che, giunte all’improvviso in occasione di un controllo di routine o arrivate a confermare qualche sintomo sospetto, suonano come una condanna. La gravidanza si è interrotta, non avrai questo bambino, non potrai stringerlo tra le braccia, nutrirlo con il tuo latte, accudirlo. Non è un argomento di cui si parla volentieri, questo.
Eppure, sono tante le donne che hanno vissuto l’esperienza della perdita di un bimbo prima della nascita. Secondo le statistiche, il 15-25% delle gravidanze si interrompe spontaneamente nel primo trimestre (è il caso, ad esempio, della maggior parte delle gravidanze extrauterine). Ma il dolore di un aborto spontaneo è un dolore che la società tende a minimizzare, ignorare, banalizzare. Chi ha vissuto questa esperienza lo può dire.
Le frasi, che io un po’ polemicamente chiamo di “non consolazione”, sono sempre le solite: «Per fortuna eri incinta solo di tre mesi», «Vedrai che ne avrai altri» o «Be’, hai già un bimbo», «Sono cose che capitano». Tutte frasi pronunciate con le migliori intenzioni, per carità. Ma che, anziché accogliere e riconoscere il dolore, sembrano sminuirlo, dando alla donna l’impressione di non essere compresa, di essere sola. Proprio nel momento in cui, invece, avrebbe più bisogno di vicinanza, empatia, affetto.
Beh, per cominciare, si potrebbe evitare di far finta di niente. Altra tentazione assai comune in questi casi. Forse perché si tende a pensare che, chiedendo alla donna come sta, accennando all’argomento, le si farà tornare in mente quanto accaduto. In realtà, lei ha già ben vivo in mente ciò che è accaduto e poterne parlare, poter “tirare fuori” le emozioni le sarebbe di grande aiuto. A me è capitato. Quando ho perso un bimbo, il mio terzo bimbo, all’undicesima settimana dell’attesa, trascorsi i primi giorni di black out, in cui ancora dovevo realizzare bene cosa era successo, ho sentito un bisogno fortissimo di parlare di lui, di quello che avrebbe dovuto essere il giorno felice della prima ecografia, del mio bambino che era lì, su quello schermo nero, così piccolo e solo. E poi del ricovero in ospedale, dell’ostetrica dolcissima che mi aveva tenuto la mano, ma anche delle neomamme con i loro piccini in braccio, mentre io non lo avrei avuto il mio bambino… C’era tanto da raccontare, ma quasi nessuno disposto ad ascoltare.
Certo, accogliere il dolore degli altri non è mai facile, soprattutto per chi è cresciuto in una società spaventata, impreparata di fronte a certi argomenti, tanto da renderli dei tabù. Si ha l’impressione di non avere le parole, di non sapere cosa dire. Ma in casi come questi non è necessario trovare le parole, è sufficiente saper ascoltare. Una stretta di mano. Un cenno del capo. Un semplicissimo “mi dispiace”, possono regalare una grande consolazione.
A volte, invece, è la donna stessa che si sente a disagio o inadeguata di fronte alle sue sensazioni e si trattiene dal parlarne per timore di sembrare esagerata o lamentosa. In realtà, la tristezza, l’agitazione, la collera, la frustrazione di fronte a qualcosa che non si può cambiare, sono tutte reazioni fisiologiche, assolutamente normali quando ci si trova ad affrontare un evento luttuoso. Non resta che vivere queste emozioni e darsi tempo.
Sì perché, quando una donna perde un bimbo, in qualunque epoca dell’attesa, deve affrontare un percorso che, con i suoi tempi e i suoi modi, la porterà a elaborare la perdita. Quantificare questo tempo, naturalmente non è possibile. Ogni donna è diversa. C’è chi nell’arco di alcune settimane si sente pronta per cercare una nuova gravidanza e chi sente di aver bisogno di un periodo di lutto più lungo.
Ma in una società che va di corsa come la nostra, sembra quasi che questo tempo non ci sia. Bisogna riprendersi, mostrarsi forti, in gamba, efficienti, al più presto. La perdita? Un incidente di percorso. Si riproverà. Ci saranno altri figli. Inutile rimuginare. Ma non è così che funzionano la mente e il cuore. C’è un momento per soffrire e un momento per stare meglio. Cercare di accelerare le cose, spingere la donna a saltare le tappe, non risolve il problema più rapidamente. Anzi. Le emozioni ignorate o negate restano lì, in sospeso, a pesare sul cuore che non ha avuto modo di sfogarle e rielaborarle. Dar voce al dolore, quando ci si sente pronte per farlo, permette di alleggerirne il carico. Lo dicono anche gli esperti e molte ricerche lo confermano.
Date al dolore la parola; il dolore che non parla, sussurra al cuore affranto e gli dice di spezzarsi.
William Shakespeare, Macbeth: IV, 3
Può accadere che, con il passare dei giorni, mentre la donna pian piano si accorge di star meglio, possa temere di dimenticare. Questo timore è in genere causa di un intenso disagio: piuttosto che dimenticare, meglio continuare a soffrire. Ma il rischio di dimenticare, in realtà, non esiste. Un bambino perso, non è perso per la sua mamma. Lei lo custodisce per sempre, al sicuro, nel suo cuore. L’ho scoperto parlando con tante, tante donne, oggi madri felici, che hanno vissuto questa esperienza cinque, dieci, vent’anni fa. Donne a cui il trascorrere del tempo non ha rubato alcun ricordo, che sanno dire quanti anni avrebbe oggi quel figlio perso e il periodo in cui sarebbe dovuto nascere. Donne che mentre dicono quanti figli hanno, sentono il loro pensiero volare là, al loro bambino speciale che non hanno potuto abbracciare, ma che c’è, fa parte di loro e della loro storia di madri.
giornalista e scrittrice specializzata nel settore materno-infantile, è autrice di numerosi saggi per futuri e neogenitori (tra cui Bebè a costo zero, Benvenuto fratellino, I giochi più stimolanti e creativi, Allattare e lavorare si può) che sono diventati un punto di riferimento per tante famiglie in Italia e all'estero, e di fiabe per bambini.