I nostri antenati non avevano dubbi. Un’età precisa definiva la fine dell’infanzia: i 14 anni. Nello Statuto del 1441 della comunità di Radicofani (Repubblica di Siena), a 14 anni i giovani entrano a far parte della comunità adulta con i relativi obblighi, diritti e doveri. Ma c’è qualcosa ancora più interessante in questo vecchio statuto. Si riconosce che la responsabilità delle proprie azioni, soprattutto se queste comportano effetti negativi, comincia da quando il bambino ha otto anni.
La concezione di un periodo di passaggio, chiamato adolescenza, sembra del tutto estranea alla riflessione comune almeno fino agli albori del Novecento. E voglio far notare che a 14 anni gli strumenti cognitivi (pensiero di tipo logico, utilizzazione delle coordinazioni spaziali e temporali) e la consapevolezza etica non differiscono sostanzialmente dagli stessi strumenti utilizzati dagli adulti.
È solo dal 1904 (data di uscita del libro Adolescence, dello psicologo Granville Stanley Hall) che il termine avrà una diffusione sempre più larga nella psicologia e nelle conoscenze comuni. Hall descrisse un nesso, che sembrava indissolubile, fra trasformazioni di tipo fisico e turbamenti emotivi. Come era inevitabile la trasformazione dei caratteri fisici, così a Hall appariva inevitabile anche una fase di passaggio caratterizzata da sentimenti contrastanti e conflittualità con il mondo adulto, causata da tensioni emotive e forti pulsioni sessuali.
La teorizzazione di Hall avveniva in epoca di piena industrializzazione, quando nasceva anche un periodo di attesa per specializzarsi prima di entrare nel mondo del lavoro. Hall forniva una razionalizzazione alla nuova dipendenza imposta ai giovani. La sua teoria fu accolta con favore da genitori, insegnanti e dirigenti dei movimenti giovanili, tutti provenienti dalla classe media.
Trent’anni dopo Margaret Mead (L’adolescente in una società primitiva) con le sue ricerche nelle isole di Samoa dimostrò come conflitti e tensioni siano un prodotto della cultura, non una concomitanza inevitabile della maturazione fisiologica: i giovani di Samoa ricevono fin dalla prima infanzia un’educazione alla sessualità e alle relazioni sociali che consentono un passaggio all’età adulta privo di conflittualità e disagi.
A partire dagli anni ’60 le ricerche cominciarono a indagare sempre più sugli aspetti evolutivi in relazione alle molteplici esperienze che gli adolescenti si trovano a dover affrontare. Vengono così superate quelle concezioni che continuavano a caratterizzare l’adolescenza come inevitabile età della crisi.
Si è riconosciuta l’esigenza di studiarla come un percorso entro cui l’individuo, nella fase di passaggio dall’infanzia all’età adulta, deve affrontare diversi compiti di sviluppo per costruire un’identità più complessa di quella che aveva nell’infanzia. Questi compiti riguardano la crescita corporea e la definizione del ruolo sessuale, la ristrutturazione delle relazioni affettive intra ed extra familiari, comprese quelle con l’altro sesso, lo sviluppo delle capacità cognitive, la preparazione a un’attività lavorativa. Compiti impegnativi, ma non necessariamente conflittuali.
Indubbiamente, in una società organizzata come la nostra, le difficoltà legate alla crescita psicologica trovano un terreno fertile nell’adolescenza, manifestandosi in forme spesso provocatorie. Quello che vorrei sottolineare è però il tipo di lettura che si dà a queste provocazioni, il modo di pensarle e di parlarne, i pregiudizi e gli stereotipi che si usano nella loro descrizione, le tipologie di aspettative che si mettono in atto.
Senza negare l’importanza dei cambiamenti che si producono in questa fase, questi, tuttavia, nella maggioranza dei ragazzi non si esprimono in forme dirompenti, negative, problematiche o conflittuali. «Per la maggior parte dei ragazzi la fase adolescenziale, al cui superamento contribuiscono sia l’adolescente stesso con le proprie risorse e le proprie scelte, sia le condizioni sociali e culturali che sono un importante terreno per la crescita, si sviluppa senza particolari opposizioni, sfide o manifestazioni psicopatologiche» (Camaioni e Di Blasio, Psicologia dello sviluppo, Bologna).
Di fatto si può dimostrare che i fenomeni biologici in sé non sono la fonte diretta o la causa di problemi che, invece, sono legati alla “preparazione” che dell’adolescenza si è fatta in famiglia, nella scuola, nelle varie relazioni che si sono realizzate negli anni precedenti. Inoltre, problemi e conflittualità, quando sono presenti, lo sono per le caratteristiche che assume la reciprocità nella relazione genitori/figli.
Il percorso in atto durante la fase adolescenziale è conseguenza del rapporto che si è già instaurato con i figli negli anni precedenti. Quali autonomie di scelta siamo stati in grado di offrire e che tipo di rispetto siamo stati capaci di riconoscere al figlio. Se siamo stati genitori molto direttivi sarà difficile rinunciare alla nostra direttività e il conflitto sarà inevitabile. Se siamo stati genitori che hanno cercato sempre di essere “amici”, quasi bambini con il bambino, e volessimo seguitare a mantenere questa caratteristica, probabilmente ci scontreremo con un figlio che non vorrà riconoscerci come suo pari, perché ha bisogno di costruirsi la propria identità in autonomia. E così via.
Come genitori dovremmo essere capaci di riconoscere che i cambiamenti dei figli adolescenti che diventano adulti impongono anche cambiamenti al modo di essere genitori. Non più chiamati a supportare l’infanzia ma chiamati a dialogare sempre più alla pari con un altro individuo che diventa progressivamente sempre più autonomo e adulto anche lui.
Non siamo individui isolati, scegliamo i nostri comportamenti come risposta e proposta ad altre proposte e risposte. In più i nostri atteggiamenti mentali contribuiscono a regolare le nostre aspettative rispetto ai comportamenti altrui. Aspettarsi che il figlio adolescente si opponga comunque al nostro modo di vita farà sì che ogni suo comportamento sarà interpretato come oppositivo.
È il famoso effetto chiamato “profezia che si avvera”: aspettarsi un comportamento ostile predetermina la mia difesa contro quel comportamento e quindi la mia ostilità. L’invito è allora quello di riuscire a mantenere un atteggiamento non pregiudiziale che darà la possibilità di non interpretare tutti i comportamenti del figlio adolescente come problematici e negativi prima ancora che un comportamento sia attuato.