Sono un’infermiera professionale e, avendo lavorato in un nido ospedaliero, conosco il ruolo che da operatori sanitari abbiamo nel renderci complici involontari di allattamenti falliti, di sentimenti di frustrazione e inadeguatezza nelle madri. Nonostante le migliori intenzioni, mi è capitato di essere talvolta testimone e protagonista di interventi che hanno sortito effetti opposti a quelli desiderati, come ad esempio nell’assistenza postpartum a una neomamma.
Oggi mi rendo conto che ogni volta che ho tolto dalle braccia di una madre un bimbo che piangeva per farle vedere come calmarlo o, con gesti rapidi e precisi, le ho mostrato come si cambiasse un pannolino o come si facesse un bagnetto, non mi sono soffermata a pensare che forse, con l’ottima intenzione di insegnarle qualcosa, le ho trasmesso il messaggio più temuto: «Non sei capace».
Quando una mamma stremata da un pianto inconsolabile del piccolo va dalle infermiere chiedendo un’aggiunta di latte, o va dal pediatra con il suo carico di dubbi riguardo la propria capacità di allattare, convinta che sia la fame l’unico demone che può turbare la serenità di suo figlio, dare quell’aggiunta di latte artificiale senza esitazione, significa dare fondamento ai suoi timori e dirle che da sola non è in grado di sfamare il suo bambino.
In poche parole, non è capace di fare la mamma. La fretta non aiuta, ma spesso l’assistenza data durante il puerperio è fatta di gesti troppo veloci, soluzioni troppo rapide che non richiedono tempo. Anche perché in ospedale di tempo c’è n’è sempre troppo poco. Spesso i reparti sono pieni e le madri da seguire sono più di quelle che il personale è in grado di assistere. Così, succede che gli operatori si trovino a improvvisare consigli e suggerimenti scorretti, basati unicamente sulla propria esperienza personale, e non su evidenze scientifiche, cosa che innesca spesso meccanismi scorretti e un forte senso di inadeguatezza delle madri al proprio ruolo.
Assistere una donna che ha appena partorito significa lavorare con quella serie di sentimenti e insicurezze che una nascita può provocare, significa sapere che quello che la madre sta vivendo è un momento di estrema fragilità emotiva, significa che chi deve aiutarla deve essere dotato di una grande capacità di ascolto e di empatia.
Se la maternità fosse realmente tutelata come dovrebbe, ci sarebbe maggiore attenzione a questi aspetti e al fatto che chi lavora con le madri ha bisogno di essere formato non solo per la parte che possiamo definire tecnica, ma anche sul come instaurare una relazione che sia di aiuto alla donna. Chi assiste dovrebbe essere in grado di fare silenzio fuori e dentro di sé per potersi mettere in ascolto della madre e comprendere che cosa stia chiedendo veramente.
Diversi studi hanno dimostrato come il migliore intervento sulle madri sia quello che le protegge dalla solitudine: l’intervento di operatori non professionali, con una formazione minima, si è dimostrato sufficiente e risolutivo in molti casi di disagio e di depressione. Una donna che ha appena partorito può sentirsi sola anche in mezzo a tanta gente che si prende apparentemente cura di lei, e questo avviene quando queste persone sono prese più dal ruolo di consigliere e risolutrici dei problemi di un neonato, che da quello di portatrici di cure.
Nonne, mariti, sorelle o amiche possono agire in modo poco appropriato, così che le madri finiscono col sentirsi delle incapaci, in balìa di una moltitudine di persone che pensano di sapere che cosa sia meglio per il loro bambino.
L’antico proverbio africano secondo il quale per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio ci ricorda che la maternità è un’esperienza che va condivisa e sostenuta, a tutti i livelli, e il passaggio di saperi e competenze da una madre all’altra può e deve rappresentare una risorsa per l’intera comunità. Dunque, aiutare una donna che deve affrontare un parto o ha appena partorito significa soprattutto aiutarla a riconoscere la sua istintiva conoscenza e le sue innate abilità di madre, senza mai farla sentire inadeguata a sostenere il suo ruolo.