«Come posso accrescere l’autostima nei miei bambini?», «I miei bambini sono insicuri. Come posso aiutarli?».
Queste sono le tipiche domande di genitori che si chiedono, con maggiore o minore preoccupazione, come dare autostima ai figli.
Da qualche decennio a questa parte siamo infatti propensi a considerare l’autostima come qualcosa da migliorare a ogni costo. Genitori e insegnanti tendono quindi a sminuire le difficoltà dei piccoli, impedendo loro di affrontarle e preferendo mostrare esclusivamente una moltitudine di punti di forza.
Ma siamo proprio sicuri che questa modalità educativa incentrata su come accrescere l’autostima nei bambini sia davvero motivante per i nostri piccoli? Cosa accadrà quando si troveranno di fronte a una reale difficoltà, in assenza dell’adulto? Riusciranno a non “crollare” di fronte a un fallimento?
La ricerca scientifica, da anni, ci dimostra come l’autostima sia da paragonare a un comportamento, più che a un contenitore da riempire.
Nel suo best seller La trappola della felicità lo psicoterapeuta Russ Harris definisce l’autostima come, sostanzialmente, un’opinione su sé stessi, un insieme di idee e giudizi sulla propria persona. Possiamo quindi credere di valere poco o molto, in generale o rispetto a particolari aree della vita.
La nostra cultura, almeno dal secondo dopoguerra in poi, ha fatto dell’autostima addirittura un baluardo del benessere psicosociale umano. L’assunto di base, sostenuto nel recente passato anche da molti esperti, afferma che se abbiamo un’alta autostima possiamo affrontare la vita con maggior successo; viceversa si rischierebbero continui fallimenti e un profondo malessere. Da ciò la spinta a difendere costantemente il proprio sé e quello dei piccoli, affinché si possa essere sempre vincenti e felici, affinché non esistano bambini timidi e insicuri, né bambini ansiosi e paurosi.
Ma siamo sicuri che funzioniamo psicologicamente in questo modo?
Provate a chiedere ai bambini di completare la frase «Sbagliando…»: loro risponderanno senza esitazione «…si impara», secondo una litania appresa già in tenera età. Davanti a un insuccesso, però, gli stessi bambini reagiranno disperandosi, sfuggendo, negando l’errore, arrabbiandosi, oppure procrastinando l’attività e preferendole compiti più facili da risolvere.
Perché succede? Per capirne i motivi proviamo a osservare la reazione degli adulti di fronte ai “fallimenti” dei piccoli. Essi tendono a rispondere in modo incoerente, perché verbalmente comunicano che l’errore fa crescere, ma con i fatti dimostrano l’opposto. Spesso si mostrano arrabbiati, fanno confronti con altri bambini, generalizzano l’errore come se fosse un tratto stabile, ma soprattutto tentano in tutti i modi di negare le difficoltà del piccolo rispetto a un determinato compito, con l’unico obiettivo di capire come accrescere l’autostima nel bambino.
Proviamo a immaginare una situazione molto comune, ovvero un bambino che dice qualcosa di negativo su sé stesso durante lo svolgimento di un’attività: «Papà, non sono capace, non ce la farò mai!». Il genitore generalmente risponde: «Non è vero che non sei capace, sei bravo e ce la farai sicuramente».
Il pensiero positivo del padre, anche se nel breve termine può sembrare rassicurante per il bambino, in realtà non aiuterà il figlio a credere di essere capace, ma attiverà nella mente del piccolo una lotta tra pensieri positivi («Ce la posso fare») e pensieri negativi («Non ce la farò»). Con l’imperativo di accrescere l’autostima, l’adulto sta inconsapevolmente intrappolando il bambino in una continua battaglia per difendere la stima di sé, per dimostrare di essere all’altezza e per non venire considerato poco intelligente.
Quali saranno gli effetti a lungo termine di questa lotta? Nel mio lavoro di psicologo dell’età evolutiva, al Centro Studi Metaintelligenze di Palermo, incontro tanti bambini e ragazzi a rischio di crollo emotivo davanti ai naturali fallimenti della vita.
Spesso, dietro l’evitamento o la procrastinazione di un’attività, si annida l’ansia di essere scoperti come bluff. Gli psicologi la chiamano “sindrome dell’impostore”, caratterizzata da perfezionismo e alta prestazionalità, che può causare un totale, o quasi, disimpegno dalle attività importanti.
Intrappolati nel dover costantemente dimostrare di avere valore, le persone che soffrono di “sindrome dell’impostore” credono e pretendono di non dover mai fallire. Vivono costantemente con l’idea di essere “imbroglioni”, non meritevoli dei propri successi, malgrado l’evidenza sembri dimostrare il contrario. Intimamente li attribuiscono a un colpo di fortuna, o a un compito troppo facile, o addirittura alla benevolenza dei valutatori, mentre imputano gli insuccessi alla propria reale incapacità e incompetenza.
Ben presto li vedremo abbandonare molte attività importanti e rifugiarsi in compiti facili o poco rischiosi, preferendo essere considerati fannulloni piuttosto che stupidi.
L’eminente psicologa statunitense Carol Dweck sostiene che, oltre a necessitare del pieno rispetto e dell’amore degli adulti, «i bambini devono sapere che l’autostima non è qualcosa che semplicemente diamo loro. È qualcosa che dipende da loro e noi possiamo soltanto insegnare ai nostri ragazzi come vivere la propria vita in modo da mettersi alla prova positivamente. In questa visione l’autostima non è qualcosa che si possiede o meno. È un modo di sperimentare sé stessi quando si stanno utilizzando bene le risorse personali per accettare le sfide, per apprendere e per aiutare gli altri».
Secondo le ricerche di Carol Dweck l’autostima non sarebbe assimilabile a un valore da attribuire alla propria persona, ma a un agire, a un impegno verso ciò che è utile e importante per la propria vita. Migliorare l’autostima, quindi, comporterebbe il far sperimentare al bambino la piena accettazione di sé stesso, in quanto essere umano imperfetto, e insegnargli a trattare con genuina gentilezza i propri sbagli e fallimenti.
Che cosa possono fare, allora, insegnanti e familiari per non intrappolare i bambini, fin da tenera età, in questa estenuante e inutile lotta? Possono trasmettere con i fatti che l’esito delle prestazioni non definisce in nessun modo il nostro valore come persona, e che fallire non è mai davvero terribile perché fa parte del processo di crescita di ciascuno. Possono far capire che migliorare le proprie abilità è possibile, che si può fare del proprio meglio, ma che non lo si può sempre pretendere. Possono aiutare i bambini a riconoscere i propri limiti, e a mostrarsi benevoli verso di essi. Possono aiutarli a comprendere che riuscire a svolgere bene un compito non dipende dal fatto di essere bravi in assoluto, ma dall’utilizzo di “buone” strategie.
Tornando al bambino dell’esempio precedente, che sostiene di non essere in grado di svolgere un compito, anziché spingerlo a credere il contrario, potremmo dirgli:
E ancora:
Seguendo questi accorgimenti, aiuteremo il bambino a distogliere l’attenzione dal pensiero negativo “appiccicoso” e paralizzante, ma anziché tentare (inutilmente) di sostituirlo con un pensiero positivo, spingeremo il piccolo all’azione, facendogli sperimentare strategie concrete. Il bambino non avrà più bisogno di dover difendere la stima di sé o di doverla accrescere, non dovrà più lottare per dimostrare di essere intelligente, e imparerà invece ad agire nel mondo e a sviluppare nuove abilità.