«Meglio insistere nelle mie richieste o rassegnarmi al fatto che gli altri hanno più potere di me e che è meglio non farli arrabbiare?». Magari non è proprio così che pensa un neonato, ma la situazione che sperimenta è esattamente questa, ovvero una diseguaglianza di potere: da un lato l’impossibilità di soddisfare le proprie esigenze e, dall’altro, l’essere totalmente a discrezione degli adulti.
Man mano che cresce, e dunque migliora la definizione della sua soggettività, il piccolo esprime richieste sempre più complesse (cosa vuole, cosa non vuole, cosa accetta di fare e cosa no) e, in base alle reazioni che ottiene, sviluppa il suo modo di confrontarsi con la volontà degli altri: insistere e “puntare i piedi” o, piuttosto, decidere quando è il caso di rinunciare.
Diciamolo: un bambino che tende a non insistere troppo e ad accettare quello che gli adulti gli propongono è un bambino “comodo”. La facilità con cui interrompe un capriccio, accetta i “no” e aderisce alle richieste dei grandi, ottiene quasi sempre reazioni positive. È un bambino “bravo” che piace alla mamma, al papà, ai nonni e alle tate.
È con i primi contatti sociali che alcuni genitori cominciano a temere che quel comportamento non sia del tutto positivo: «Non difende i suoi giochi, se un bambino glieli porta via lui si blocca o si mette a piangere»; «Lascia comandare un gruppo di bambini più grandi, fa tutto quello che gli chiedono senza dire la sua o ribellarsi»; «Se gli fanno i dispetti non osa dirlo alla maestra, e quando gli viene chiesto se qualcuno gli dà fastidio dice di no». Nei racconti dei genitori compare un bambino insicuro, timido, poco assertivo. Come non preoccuparsi pensando alla realtà di oggi? Lo vediamo già vittima degli altri, esposto a prepotenze e soprusi, incapace di difendersi e di competere.
Cominciamo con un elenco di cose che è meglio evitare di fare:
Noi stessi, nel provare a chiederci «perché il bambino fa così?», siamo i primi a non saperlo. Comportamenti simili possono infatti avere significati molto diversi, ma in ogni caso ricordiamoci che non sono mai un “problema”, bensì una caratteristica del bambino. Molto dipende dall’età del piccolo, dalle esperienze che ha fatto o che sta facendo, dalle situazioni in cui quel comportamento si manifesta. Nei momenti di passaggio da un ciclo scolastico a un altro, ad esempio, spesso il bambino sceglie comportamenti non conflittuali per ridurre la tensione nel fronteggiare i cambiamenti di ambiente. Anche l’inizio dell’adolescenza è un periodo in cui si possono verificare atteggiamenti più arrendevoli per gli stessi motivi.
Tutti questi elementi vanno a intrecciarsi con le caratteristiche specifiche di ogni bambino, con lo stile familiare, con i messaggi che provengono dagli altri ambienti in cui è inserito.
I genitori collegano questi comportamenti al rischio di essere bullizzati o di avere uno scarso successo sociale. Nel caso dei maschietti, esiste anche la paura che un simile comportamento sia poco “virile”, un tipo di “preoccupazione ideologica” che trova il suo corrispettivo anche per il femminile: una bambina troppo arrendevole rischia di essere sfruttata e non valorizzata. La linea di confine fra accogliere il modo di essere dei nostri figli e la preoccupazione di aiutarli a superare le difficoltà che esso può comportare è molto sottile. Per coglierla, l’unico strumento è l’osservazione attenta, affettuosa e vigile.
Evitare i conflitti non è sempre sinonimo di esclusione sociale. Al contrario, spesso i bambini che tendono ad accogliere le richieste degli altri sono una risorsa riconosciuta e apprezzata nelle situazioni di gruppo, a scuola come nello sport. In questi casi, chiediamoci se la difficoltà non sia piuttosto solo ed esclusivamente nostra: forse siamo noi che pretendiamo da nostro figlio atteggiamenti più “vincenti”?
In ogni caso, è importante saper cogliere i segnali di disagio. Se ad esempio il bambino evita in modo netto alcune situazioni sociali, se è spesso triste o agitato, se fatica a dormire, è consigliabile confrontarsi con gli altri adulti con cui il piccolo è in contatto (insegnanti, allenatori, responsabili di gruppi in cui è inserito eccetera) e individuare modalità condivise per aiutarlo a parlare delle sue difficoltà: se non lo ha ancora fatto nonostante il disagio che manifesta, significa che non riesce a farlo, o che non sa se può farlo.
Cercare insieme al bambino strategie utili non vuol dire farlo diventare diverso, ma permettergli di sviluppare capacità di risposta più efficaci: attività che aumentino la sua fiducia in sé stesso, esperienze sociali che lo valorizzino.
Anche l’aiuto dello psicologo può essere utile, ma lo sarà di più se i genitori in primis saranno riusciti ad aprire un dialogo con il bambino e a individuare con lui la necessità di un aiuto. Non per “guarire” da qualcosa di sbagliato ma per sviluppare le sue capacità di stare bene nel mondo.
psicologa, psicoterapeuta della famiglia e docente di counselling alla Scuola di specializzazione in Pediatria dell’Università di Torino, ha elaborato il metodo del counselling sistemico narrativo, che utilizza nella formazione dei professionisti e negli interventi per lo sviluppo delle competenze genitoriali. Ha fondato la scuola di comunicazione e counselling CHANGE di Torino.