Da piccoli è assai più facile imparare una seconda lingua, anche per quanto riguarda la pronuncia corretta di suoni molto diversi rispetto a quelli della lingua madre. Per esempio, un giapponese adulto, che ha difficoltà nel differenziare il suono /r/ da /l/, pronuncia bene entrambe le lettere se è stato esposto precocemente sia alla lingua giapponese sia a quella inglese.
In particolare, la maggiore propensione al bilinguismo da parte dei bambini piccoli dipende dal fatto che nel loro cervello la stessa area della corteccia (quella del linguaggio, situata nella regione fronto-parietale dell’emisfero sinistro) si attiva per entrambe le lingue: nei ragazzi che apprendono tardivamente – dopo i 15-20 anni – una seconda lingua, si attivano invece due diverse regioni, ognuna delle quali deve prendersi carico dell’una o dell’altra lingua.
Si spiega così perché, per un adulto, salvo rare eccezioni, sia più difficile acquisire nuovi tipi di suoni: le mappe del linguaggio della prima e della seconda lingua interferiscono tra loro. Per il linguaggio si verifica, insomma, un’interferenza simile a quella che caratterizza l’esecuzione simultanea di due movimenti in competizione l’uno con l’altro. Immaginate di dover compiere con la mano destra un movimento rotatorio sopra la vostra testa, come se ci fosse un’aureola immaginaria, e di dover fare con la punta dell’indice della mano sinistra un movimento di “va e vieni” in direzione della punta del naso: ognuna delle due azioni non pone problemi se eseguita da sola, ma esse interferiscono tra loro se eseguite in simultanea.
Nel corso degli ultimi mesi di gestazione il feto ascolta le parole pronunciate dalla madre, che vengono trasmesse attraverso la parete uterina. Appena nato, il bambino dimostra di reagire selettivamente alle parole pronunciate dalla mamma piuttosto che a quelle pronunciate da un’altra voce femminile. Se il feto è stato esposto a due lingue diverse, sarà in grado di differenziarle alla nascita a condizione che siano molto diverse, come l’inglese e l’italiano, o l’inglese e il giapponese. Se invece le due lingue si assomigliano molto, come l’italiano e lo spagnolo, il lattante sarà in grado di distinguerle più tardi, intorno ai 4-5 mesi di età, sia nel caso in cui i due genitori parlino una sola lingua, sia nel caso del bilinguismo. In generale, i bambini piccoli acquisiscono molto precocemente la capacità di distinguere le caratteristiche delle due lingue a cui sono esposti.
I bambini hanno, prima della pubertà, una grande capacità di apprendere due lingue, sia dal punto di vista dei suoni, sia da quello delle regole grammaticali, anche se dopo i 7-8 anni l’apprendimento di una seconda lingua comincia a essere un po’ più difficile. Esiste insomma un periodo sensibile legato allo sviluppo cerebrale.
Quando si tratta di apprendere due lingue simultaneamente, il bambino è facilitato se ognuno dei due genitori (di lingua diversa) parla la propria lingua, questo perché è più semplice mappare separatamente due insiemi di fonemi (le unità linguistiche come /t/ e /d/) e separarli dal punto di vista percettivo: siccome i maschi e le femmine parlano con frequenze diverse, la separazione dei fonemi risulta più facile nel caso in cui sia possibile attribuire quelli di una lingua al padre – per esempio un padre italiano la cui voce è caratterizzata da frequenze più basse –, e quelli di un’altra lingua alla madre – per esempio inglese – dalla voce più acuta rispetto a quella maschile.
Il cervello dei lattanti e dei bambini piccoli è estremamente plastico e non ha difficoltà a manipolare due lingue diverse e, se esposto a suoni differenti, come avviene nel bilinguismo, li assorbe con facilità (anche se l’apprendimento delle regole grammaticali si verifica più tardi, con la progressiva maturazione della corteccia frontale).
Va precisato che i bambini bilingui, all’inizio, possono manifestare un piccolo ritardo linguistico, ma in seguito si mettono facilmente in pari con gli altri bimbi. Inoltre, l’esercizio precoce del bilinguismo si ripercuote positivamente sulla cosiddetta “riserva cognitiva”, vale a dire su una maggiore capacità del cervello che si estende sino all’età adulta e alla vecchiaia. Per questo imparare bene una seconda lingua ha, alla lontana, un effetto protettivo sul decadimento cerebrale senile.
Se i genitori non sono bilingui, il metodo migliore è quello di imparare giocando. Una strategia messa in atto in alcuni paesi europei è quella dell’apprendimento recitato: i bambini devono recitare in gruppo una serie di vocaboli accompagnandoli con gesti e movimenti che ne rappresentino il significato. Uno studio sull’efficacia di questo metodo indica che gli studenti hanno raggiunto prestazioni tre volte superiori rispetto a coloro che hanno seguito il metodo convenzionale. La tecnica sfrutta il fatto che le memorie motorie (legate all’esecuzione di un particolare movimento) sono particolarmente robuste e influenzano quelle legate al linguaggio.
Anche l’esecuzione di brani musicali, possibile nei bambini più piccoli grazie a strumenti improvvisati e a vocalizzazioni, fa sì che l’apprendimento avvenga più velocemente. Inoltre, se i piccoli vedono dei cartoni animati, è indicato farli vedere nella seconda lingua che devono apprendere, ad esempio l’inglese: mentre in Italia tutto viene doppiato ciò non accade all’estero, il che spiega la maggior competenza linguistica di gran parte dei bambini e ragazzi nordeuropei. Buona anche la strategia di ricorrere agli audiolibri in una seconda lingua, anche se è meno giocosa e funziona meglio a partire dai 7-8 anni.
Non ci sono prove che indichino un collegamento tra bilinguismo e balbuzie. Circa il 50% della popolazione è bilingue mentre appena l’1% balbetta dopo i 18 anni, e tra i 2 e i 6 anni esiste una balbuzie fisiologica che si risolve da sola. Semmai un bambino che ha iniziato da poco l’apprendimento di una seconda lingua potrebbe avere incertezze e sospensioni che possono indurre a un’errata diagnosi di balbuzie.
professore emerito di Psicobiologia presso l’Università Sapienza di Roma, ha lavorato in numerosi istituti di ricerca internazionali. Dal 1976 al 2002 ha diretto l'Istituto di psicobiologia e psicofarmacologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche. È autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche, di saggi professionali, didattici e di divulgazione.