A volte, leggendo i risultati di vecchie ricerche si ha la sensazione che gli scienziati facciano la parte dei predicatori nel deserto, voci solitarie senza risonanza. Come se tra la scienza e il sapere comune, quello che informa le nostre pratiche quotidiane, ci fosse un salto, un canyon, un vuoto di comunicazione. Ne rimane una sensazione di confusione, di disorientamento e ci si chiede chi abbia il compito di dare concretezza alla ricerca, di portare la conoscenza dalla stratosfera alle strade? Insomma, a chi è affidato, oggi, il compito d’informare ed educare?
Apprendiamo, per esempio, che nel lontano 1962 due scienziati americani si dedicarono a studiare le relazioni tra il bilinguismo e lo sviluppo dell’intelligenza, argomento che, già all’epoca, destava parecchia preoccupazione. Era opinione comune, infatti, che l’essere bilingui potesse essere un ostacolo per l’acquisizione corretta del linguaggio e quindi per un normale sviluppo dell’intelligenza.
Ma gli studiosi arrivarono alla rivoluzionaria conclusione che i bambini bilingui non solo non avevano nessuna difficoltà nell’apprendimento, non erano più lenti, né meno intelligenti dei loro coetanei monolingui, ma sottoposti ad un’ampia gamma di prove, rivelavano una notevole superiorità cognitiva. Già allora emerse come il contatto con due, o tre, lingue diverse producesse un arricchimento di competenze, determinando una maggiore flessibilità mentale, maggiore capacità di risolvere problemi, di distinguere fra somiglianze fonetiche e somiglianze semantiche. In parole povere, a fronte di un’iniziale e temporanea povertà di vocabolario, fu chiaro che i bambini bilingui o trilingui sviluppavano poi una straordinaria ricchezza linguistica e mentale.
A distanza di molti anni dalla prima ricerca, per l’esattezza nel 2006, sono stati pubblicati due nuovi studi che sostanzialmente riprendono in esame tutte le pubblicazioni precedenti in materia di bilinguismo e sviluppo dell’intelligenza. Ancora una volta i risultati confermavano, e rinforzavano con nuove argomentazioni, quanto era stato già detto nel 1962.
Dunque, il contatto con la diversità linguistica non è un fattore di ostacolo, non limita, non impedisce, non isola, ma al contrario moltiplica i punti di vista, gli strumenti espressivi, la capacità di distinguere e riconoscere, determina una maggiore crescita e un maggior sviluppo delle potenzialità intellettuali, sociali e culturali di un bambino. E non si pensi che lingue completamente diverse da quella di adozione facciano eccezione, perché maggiore è la diversità tra le lingue a cui il bambino viene esposto, maggiori saranno i benefici che potrà trarne.
A fronte di questo ci aspettiamo che ogni comunità, grande o piccola che sia, si faccia carico di rinforzare questo messaggio favorendo l’esposizione dei bambini alla lingua di adozione e stimolando le famiglie straniere a parlare nella loro lingua madre, ricordando che la diversità può essere una ricchezza soltanto se riconosciuta come tale dall’ambiente in cui si vive e s’impara.
Ancora una volta, la scuola dovrebbe avere un ruolo importante, forse decisivo, non solo nel riconoscere il valore della diversità di ogni ambiente e lingua di provenienza ma lavorando per far sì che tali diversità siano parte integrante della quotidianità scolastica, per divenire poi parte integrante della vita di ogni cittadino.
Qualche anno fa uscì al cinema un bellissimo film d’animazione di un regista francese Michel Ocenot, s’intitolava Azur e Asmar. Il film era parlato sia in italiano sia in arabo, e l’effetto era straordinario: non solo era tutto comprensibile, ma le immagini, gli ambienti, i personaggi, i dialoghi, tutto aveva una grazia e una ricchezza veramente insolita. Ne consigliamo la visione a bambini e adulti.