Come ogni termine che indica una malattia o un disturbo specifico, anche la parola depressione deve essere utilizzata con attenzione: il rischio di sottovalutare i segnali esiste, ma esiste anche il rischio di trasformare comportamenti legati alla normale crisi esistenziale, caratteristica dell’adolescenza, in una etichetta che spiega tutte le difficoltà del ragazzo e lo identifica come “depresso”.
D’altro canto l’adolescenza, periodo di crescita e scoperta, può essere accompagnata, in alcuni casi, da un forte disturbo emotivo caratterizzato da sensazione di tristezza, momenti di disperazione e perdita di interesse per le attività quotidiane.
In questo articolo cercheremo di capire quali sono i sintomi della depressione in adolescenza, o sarebbe più corretto dire i campanelli d’allarme, le situazioni da attenzionare e che ci indicano che qualcosa, nel ragazzo o nella ragazza, sta cambiando.
Più che di sintomi della depressione in adolescenza parliamo dunque di campanelli d’allarme che devono indurre i genitori a osservare meglio, a mettersi in ascolto dei ragazzi senza tormentarli e senza anticipare, con loro per primi, la parola depressione.
«La maggior parte dei ragazzi e delle ragazze che vengono a parlarmi – dice Milena Sorrenti, counselor dell’Istituto CHANGE, che lavora in numerosi punti di ascolto per gli adolescenti nelle scuole e nei consultori – parlano di ansia, di senso di solitudine, di incomprensione; quasi mai di depressione. Sono i genitori e gli insegnanti che usano con estrema facilità quella parola/diagnosi, che molti ragazzi contestano vivacemente».
L’aggettivo “vivacemente” che Milena usa in modo spontaneo fa riflettere su ciò che davvero può considerarsi un sintomo di depressione in adolescenza e ciò che invece non lo è: un adolescente depresso non contesta, è prevalentemente apatico, poco reattivo, o è irritabile in modo generalizzato, con momenti di crisi di rabbia inaspettati e imprevedibili. Talvolta non appare neppure triste, ma semplicemente assente.
Per i genitori non è certamente facile capire quali segnali o comportamenti devono far pensare a una depressione. Di certo è bene evitare di precipitarsi su internet con l’idea che, dopo una lettura sommaria di articoli più o meno attendibili, si otterrà una sorta di “ricetta” per riconoscere la depressione negli adolescenti a colpo sicuro e in brevissimo tempo.
Il consiglio migliore è, piuttosto, quello di osservare i propri figli con pazienza e attenzione, a partire dai cambiamenti bruschi e persistenti:
Attenzione: non è ancora il momento di dire «Ma allora è depresso!». Piuttosto occorre mantenere attiva la vigilanza senza che questa si trasformi in inquisizione, per poi trovare, anche con l’aiuto di un esperto, la strada migliore – che si tratti o no di depressione – per aiutare il ragazzo o la ragazza a stare meglio; in fondo, è questa la cosa più importante.
Due domande da non fare mai all’adolescente che ci preoccupa per il suo umore “al negativo” sono: «Che cos’hai?» e «Cosa è successo?». Sia che si tratti di tristezza (o, per meglio dire, della dolorosa riflessione sul senso dell’esistenza, che è tipica dell’adolescenza) sia che si tratti davvero di un inizio di depressione, si tratta di domande a cui i ragazzi non sanno rispondere, perché non è quasi mai un singolo evento o un’esperienza specifica a produrre quei cambiamenti, ma un concorso di fattori difficili da tradurre in parole.
Alla base c’è un aspetto che accomuna tutti gli adolescenti: la comparsa di quei “compiti di crescita” che trasformeranno il bambino in un adulto. Per compiere quella trasformazione, i ragazzi sentono che dovranno: riuscire a instaurare buone relazioni con i coetanei di entrambi i sessi; accettare il proprio corpo che cambia e le reazioni degli altri a quel corpo; diventare più indipendente, anche emotivamente, dai genitori; prepararsi a un futuro di indipendenza economica; eccetera.
È come uscire da una vecchia pelle senza averne pronta una nuova: come stupirsi dell’ipersensibilità, dell’iperreattività a tutto ciò che accade, dell’attenzione esasperata per ciò che pensano gli altri?
Quando a questa situazione “fisiologica” si sommano fattori che accentuano le difficoltà, che portano i ragazzi a sentirsi incapaci, inadeguati e soli, può (sottolineo “può”) instaurarsi uno stato depressivo, specie se si sommano altri fattori, come un contesto famigliare o sociale troppo richiedente, poco valorizzante o scarsamente affettivo, o anche obiettivi eccessivamente ambiziosi – nello sport, nella scuola, in attività artistiche… – che si rivelano irraggiungibili.
Anche le prime relazioni sentimentali e sessuali possono portare un ragazzo o una ragazza dalla “normale” reazione di delusione e sofferenza a uno “stato” che tende a radicalizzarsi. Sono questi cambiamenti che non si attenuano, e diventano una condizione che perdura nel tempo, che possiamo considerare un reale segnale di allarme.
Oltre all’indicazione di evitare domande dirette e di restare in osservazione senza intervenire troppo frettolosamente, è importante innanzitutto che i genitori si chiedano se il loro stile di comunicazione abituale è ancora adatto al particolare momento vissuto dall’adolscente. Attenzione: questo non significa che i genitori siano la causa di una eventuale depressione, ma che una delle prime cose da fare è cercare di adeguare le proprie modalità relazionali e educative alla situazione di difficoltà e di sofferenza del proprio figlio o della propria figlia, al di là del fatto che si tratti di depressione oppure no.
Una consulenza pedagogica può essere un primo passo: confrontarsi con un professionista permette ai genitori di perfezionare le proprie osservazioni e sviluppare ipotesi su come migliorare le modalità di comunicazione e di relazione con il ragazzo o la ragazza.
Proporre anche ai propri figli un aiuto psicologico o l’intervento di un centro specializzato richiede infatti estrema cautela e attenzione: se fatta nel modo sbagliato e nel momento sbagliato, la proposta può precludere per molto tempo l’accettazione di un aiuto di questo tipo. Per questo è molto importante che i genitori cerchino un aiuto e un affiancamento per sé stessi nel momento in cui cominciano a preoccuparsi per il comportamento dei propri figli adolescenti, per trovare il momento e il modo migliore per proporre loro un aiuto, e anche per individuare il tipo di aiuto più adatto.
Molti ragazzi e ragazze che in un primo momento rifiutano l’invio allo psicologo accettano invece interventi individuali o di gruppo in cui parlare liberamente, sentirsi ascoltati/e e aiutati/e a “sbrogliare i problemi” – come ha detto alla sua counselor Pietro, un quattordicenne che stava sviluppando comportamenti preoccupanti di chiusura sociale e di riduzione della comunicazione. Molte scuole e molti servizi di territorio mettono a disposizione degli adolescenti “sportelli di ascolto” il cui obiettivo non è la diagnosi – che un adolescente in crisi può temere, o comunque non desiderare – ma la ricerca e la valorizzazione delle risorse del ragazzo o della ragazza: le strategie che riesce a usare per sentirsi meglio, le cose che ancora riesce a considerare piacevoli, le persone con cui riesce a sentirsi a suo agio.
Pietro, dopo qualche mese di incontri fatti “di ascolto”, ha deciso che voleva provare a stare meglio. Ha iniziato una psicoterapia e continua a frequentare il centro di ascolto per degli incontri di gruppo sulla gestione dell’ansia da prestazione a scuola. La parola depressione c’è, nella sua vita e in quella della sua famiglia, ma come qualcosa da gestire e non da considerare come una condanna permanente.
psicologa, psicoterapeuta della famiglia e docente di counselling alla Scuola di specializzazione in Pediatria dell’Università di Torino, ha elaborato il metodo del counselling sistemico narrativo, che utilizza nella formazione dei professionisti e negli interventi per lo sviluppo delle competenze genitoriali. Ha fondato la scuola di comunicazione e counselling CHANGE di Torino.