In Italia abbiamo eccellenti ospedali e strutture sanitarie con un tasso di mortalità e di morbilità materna e neonatale tra i più bassi in Europa: un ottimo risultato dovuto sia ai progressi medici e al nostro sistema sanitario pubblico, sia al miglioramento generale delle condizioni di salute della popolazione raggiunto negli ultimi sessanta anni.
Purtroppo, siamo anche uno dei Paesi nel mondo con il più alto tasso di tagli cesarei e di medicalizzazione del percorso nascita. Ma se la medicina ha portato a un grande miglioramento delle condizioni di salute delle persone, perché ci troviamo a dover parlare di “eccesso di medicalizzazione”?
Nel 1985, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato delle Raccomandazioni basate su prove di efficacia, riguardanti le modalità di assistenza al travaglio, al parto e al post partum. Nel documento sono indicate chiaramente le pratiche efficaci e appropriate, e quelle sconsigliate e dannose.
Ciò nonostante molte strutture sanitarie non seguono le raccomandazioni OMS ma, al contrario, mettono in atto un’assistenza spesso aggressiva, non basata su evidenze scientifiche, non rispettosa delle volontà e dei diritti della mamma e del neonato, seguendo obsoleti protocolli interni.
In particolare l’OMS afferma che, in assenza di una precisa indicazione medica, siano da evitare:
Riguardo il taglio precoce del cordone ombelicale, l’OMS tiene a sottolineare che nessun processo di osservazione neonatale giustifica un allontanamento dalla madre, se non in caso di specifiche condizioni cliniche. Al contrario si raccomanda il contatto pelle a pelle e l’immediato avvio dell’allattamento al seno prima di lasciare la sala parto, conosciuto come rooming-in.
Tutte queste procedure, quando praticate senza un’evidente indicazione medica, sono da considerare una medicalizzazione impropria che non solo risulta inutile, dolorosa o sgradevole per la donna, ma può essere dannosa per la madre e per il neonato, determinando l’effetto paradossale per cui è proprio la cosiddetta cura a produrre la patologia (effetto iatrogeno). Queste pratiche assistenziali possono determinare un effetto a cascata che rende il taglio cesareo inevitabile anche quando non sarebbe stato necessario se si fosse praticata un’assistenza meno invasiva. La mancanza di rispetto e gli abusi durante il travaglio e il parto hanno trovato una definizione che ci sembra appropriata nell’ordinamento di alcuni Paesi dell’America Latina: “violenza ostetrica”.
Il parto è un’esperienza intensa e importante, che molte donne definiscono trasformativa e fondante. Sicuramente è un’esperienza personale, unica, che ogni donna ha il diritto di vivere secondo il proprio modo di essere e di sentire. Per esempio alcune donne vorrebbero l’epidurale, altre il parto in acqua, o in casa, o in ospedale e tanto altro ancora. Per questo motivo i genitori dedicano molta attenzione e tempo alla scelta del luogo del parto. Il fatto che alcuni percorsi ospedalieri non prestino alcuna attenzione ai bisogni e alla volontà della donna, imponendole per esempio la posizione da assumere durante il travaglio e il parto, può provocare un effetto dannoso sulla salute di madre e neonato.
Per quanto riguarda la salute della madre, oltre ai possibili danni fisici, la violenza ostetrica produce anche un danno psicologico, i cui effetti a breve, medio e lungo termine influiscono negativamente nella relazione madre-figlio. Ad esempio a livello psicologico può innescare un processo di sfiducia in se stessa e nelle proprie capacità e competenze che può produrre un senso di inadeguatezza, insicurezza e impotenza spesso accompagnati da vissuti di sconforto, ansia e paura.
Aver subito pratiche invasive, il non essere stata informata, l’essere stata trattata con poco rispetto, può far vivere il travaglio e il parto come momenti traumatici e questa esperienza può portare la donna a provare sentimenti di svalutazione e auto colpevolizzazione: pur non avendo alcuna responsabilità, le donne possono rimproverarsi di non aver gestito e vissuto il parto come desideravano, di non essere riuscite a tenere il proprio bambino con sé, di non essere state in grado di farsi sentire.
Tra gli effetti di questo trauma può esserci anche una diminuzione della capacità empatica, che può giungere fino a creare un senso di estraneità e distacco che causa interferenze sull’instaurarsi di un valido e positivo legame di attaccamento tra la mamma e suo figlio.
Anche i neonati possono subire effetti negativi, non solo sul piano fisico ma anche su quello psicologico, emotivo e relazionale. I neonati vengono al mondo con alcune competenze già ben definite e con alcuni bisogni imprescindibili: se posti sulla pancia della mamma sanno orientarsi e trovare da soli il seno per iniziare a poppare, hanno gli occhi aperti, si orientano nello spazio alla ricerca del volto della madre e sanno riconoscere la voce materna. Qualsiasi elemento che interferisca con questi processi fisiologici può essere dannoso (per esempio la separazione dalla madre o l’uso di detergenti aggressivi che modificano gli odori).
Il contatto pelle-a-pelle è propedeutico, sia per la mamma sia per il neonato, al riconoscimento reciproco e all’instaurarsi del legame di attaccamento (relazione caratterizzata per la madre dal desiderio di vicinanza al proprio figlio, di disponibilità e sensibilità ai suoi bisogni di dipendenza e sicurezza, dalle capacità empatiche e di rispecchiamento, e per il neonato dal bisogno di restare il più vicino possibile alla madre in quanto fonte di amore, protezione, cura, nutrimento e calore).
Una buona relazione di attaccamento è fondamentale per garantire a madre e figlio un buon adattamento alla nuova situazione ed è il contesto primario all’interno del quale il bambino inizia a costruire le basi della sua identità, in particolare le fondamenta affettive, il Sé emotivo e la sua capacità di “essere con l’altro”.
L’articolo 32 della nostra Costituzione recita:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.”
Di conseguenza le donne hanno il diritto di essere informate e di scegliere i trattamenti ai quali essere sottoposte, ed è preciso dovere dell’operatore sanitario fornire informazioni corrette da un punto di vista scientifico e seguire la volontà delle persone che assiste, senza imporre percorsi terapeutici precostituiti.
Il consenso informato che viene richiesto per l’esecuzione di alcune pratiche è sempre revocabile: se una donna ha dapprima acconsentito a un pratica, qualora cambiasse successivamente idea, è libera di revocare il proprio consenso.
Sono 15 le pratiche considerate nocive o inefficaci, che secondo l’OMS dovrebbero essere eliminate, fra queste: