Un pomeriggio passeggiavo in un parco e sono passato vicino ad alcuni bambini che si stavano allenando a giocare a rugby insieme a un istruttore. Un bambino, circa 8 anni, si rifiuta di provare a tirare la palla ovale, poi all’improvviso scoppia in lacrime, abbandona il gruppo e raggiunge la mamma a bordo campo. “Matteo! Ma perché non provi a tirare?”. “Non ne sono capace! Loro sono tutti più bravi di me…!”. “Ma cosa dici? Stanno imparando anche loro, è la prima lezione, sei voluto venire tu. Perché fai sempre così, tutte le volte?”. Urla, disperazione. Poi Matteo tra le lacrime esclama: “… però mamma, ti prego, non gioco ma vorrei tanto una palla da rugby… me la compri?”. Ho ascoltato quella mamma, tra l’incredulo e l’innervosito, cercare di opporsi alla richiesta del figlio provando ad argomentare un rifiuto nei modi più disparati, e la cosa che mi ha colpito è che non è riuscita a pronunciare un chiaro: “No. La palla non la compro”.
Ho riflettuto molto sulla difficoltà che abbiamo in generale, ma soprattutto come genitori, a dire no ai nostri figli e ritengo che le ragioni siano molte, certamente di natura personale, anche se alcune trasformazioni di natura storica, sociologica e culturale hanno influito su ciò che stiamo ancora vivendo.
Per prima cosa ci troviamo a fare i conti con l’idea che l’ambito familiare debba essere quello dell’armonia affettiva, del benessere, della felicità, che genitori e figli debbano essere perfetti. Questa è un’idea relativamente recente, sviluppata nel Novecento, che nasce dopo secoli di relazioni familiari caratterizzate da una prospettiva più di natura contrattualistica: i figli nascevano per assicurare la discendenza o garantire il sostentamento economico. I rapporti erano fondamentalmente regolati da un’impostazione paterna di stampo autoritario: il padre comandava, puniva, stabiliva indiscutibilmente i sì e i no. Questo non significa che vi fosse una particolare attenzione educativa: i bambini più che altro crescevano vessati e costretti dentro a no tassativi che generavano sensi di colpa o paura.
Una volta finita l’epoca autoritaria, la prospettiva è diventata invece quella di stampo più materno: concentrata sulla cura, l’accudimento, il figlio posto al centro. L’attenzione a salvaguardarne tutti gli aspetti della crescita diventa preponderante al punto che si realizza una sorta di supremazia del figlio sul genitore, che abdica al proprio ruolo educativo per timore di ferire, procurare qualche danno allo sviluppo, ma anche soprattutto per timore del conflitto.
Mamme e papà spesso temono che il no comprometta la relazione con i figli. Ma in realtà quell’ansia e quel senso di colpa che proviamo al timore di compromettere un legame così fondamentale attraverso un no, derivano da una matrice infantile che influenza e spesso tiranneggia la nostra competenza conflittuale. La mamma che non riesce a mandare la propria figlia di 6 anni a scuola perché dice che sta male e che i compagni o la maestra le direbbero cose terribili, il padre che non riesce a interrompere il figlio di 12 anni che continua ad usare il suo smartphone anche a tavola, si appellano a una personale difficoltà nel reggere la propria posizione di adulti che indirizzano, rassicurano, regolano, influenzano, attribuendo a queste azioni un effetto sul proprio figlio che loro non reggono. Queste matrici infantili impediscono ai genitori di occuparsi dei figli e li costringono a continuare a occuparsi di sé, delle proprie esperienze infantili nel tentativo di riscattarle e bonificarle.
Abbiamo spesso paura di entrare in conflitto con i nostri figli. Certamente facciamo fatica ad affrontare le lamentele, le richieste estenuanti, i capricci, le tensioni, le urla, ma, al di là di questo, ciò che oggi gli adulti mi sembra facciano fatica a gestire più di tutto è la solitudine che deriva dal dire no. Le relazioni conflittuali implicano un elemento di separazione, di alterità e distanza, inevitabile conseguenza della fine dell’illusione che sia possibile realizzare un’unità fusionale non conflittuale. Da un lato dire no ci porta fuori da una sorta di dinamica alienante con cui tendiamo a chiuderci alle esigenze profonde dei nostri figli, a non ascoltarli e a preservare l’equilibrio della relazione senza però metterci in gioco. Dire no significa allora entrare in contatto, riconoscere che oltre a noi esiste anche l’altro. Ma il no è anche conflittuale: sostiene il rapporto e ne accetta le complicazioni, non rinunciandovi neanche in caso di contrasto.
Questi sono i no che servono: di madri e padri che mantengono aperta la relazione con i figli senza subirla. Non si tratta di no arbitrari, estemporanei, reattivi: nascono da un progetto educativo chiaro, e condiviso il più possibile tra i genitori, e hanno l’obiettivo di perseguirlo. Sono i no che ci consentono di dare a nostro figlio, a nostra figlia, un’informazione precisa: “No, non è il momento …”, “No, questo non puoi farlo …”, ma al tempo stesso di mantenere la relazione, di restare in una prospettiva di apertura e di ascolto. Il no ha una funzione regolativa e di indirizzo che si integra bene con la componente affettiva e di legame con i figli. La conflittualità, i litigi, ci permettono di accorgerci che il gioco sta funzionando e che noi genitori siamo al posto giusto.
I no che servono alla crescita dei nostri figli spesso non coincidono con i no che ci piacciono come genitori. Sono diversi a seconda dell’età dello sviluppo e rispondono a precise esigenze di crescita e individuazione.
Ciascuno è legato ai propri meccanismi, soprattutto se complessi e nocivi: ne trae dei vantaggi fittizi di cui spesso non si accorge neanche e di cui fatica a liberarsi. Quante volte abbiamo la certezza che stiamo sbagliando eppure non riusciamo a fare diversamente? C’è un momento in cui i vantaggi finiscono di essere tali e diventano ostacoli per le relazioni con i nostri figli.
Se ogni volta allora che diciamo di no, che utilizziamo un no conflittuale, permettiamo ai bambini e ai ragazzi di cercare, di scoprire, di usare le loro risorse, lo stesso avviene per noi: utilizzare un no difficile consente a loro come a noi di attivarsi in prima persona, di metterci del proprio, di scardinare meccanismi e dinamiche poco funzionali all’educazione loro e all’evoluzione nostra.