Diventare genitori per la prima volta proprio a ridosso dell’emergere del problema pandemia. Diventarlo in una zona in cui i contagi della COVID-19 sono stati numerosi e vivere parto e puerperio nel periodo del confinamento. Si tratta di una situazione che ha toccato molte famiglie italiane. Per capire meglio che cosa significhi affrontare una simile esperienza e gestire lo strano miscuglio di gioie e preoccupazioni che si porta dietro, abbiamo parlato con due genitori, Chiara e Daniele, che abitano a pochi chilometri dalla prima zona rossa, quella dei comuni attorno a Codogno, e hanno avuto il loro bambino, Federico, l’8 marzo, il giorno in cui nella loro regione è stato avviato il confinamento per contenere il virus, subito dopo esteso all’intero territorio nazionale.
«La prima sensazione con cui ci siamo dovuti confrontare – racconta Chiara – è stata quella dell’incertezza. Il primo parto porta con sé numerosi dubbi. Il primo parto in tempi di pandemia non può che amplificarli e renderli più stringenti. Tutti i genitori si chiedono se saranno in grado di prendersi cura del loro bambino, consapevoli del fatto che è sempre possibile fare errori. Noi avevamo in più il problema di affrontare una situazione per la quale non potevamo neppure fare affidamento sull’esperienza degli altri, quindi alle domande che tutti i genitori si pongono si sommavano quelle specifiche di questa emergenza». «Da questo punto di vista – aggiunge Daniele – il fatto di diventare genitori per la prima volta ci ha forse aiutato. Non avevamo un’idea concreta di che cosa significasse in pratica la gestione di un neonato, per esempio ciò che comporta in termini di fatica e sonno perso. All’inizio, anche le paure legate al diffondersi del Coronavirus erano sfumate, perché le informazioni arrivavano incomplete e contraddittorie. Attendevamo, quindi, di capirci qualcosa di più sostenendoci a vicenda, per quanto ci era possibile».
La situazione è rapidamente precipitata alla fine di febbraio, quando a pochi chilometri da casa di Chiara e Daniele viene diagnosticato il paziente 1 di quella che diventerà a breve la prima zona rossa del territorio italiano. «È stato in quel momento – ricorda Chiara – che ho capito che la parte finale della mia gravidanza non sarebbe stata come l’avevo immaginata. Mi preoccupava in particolar modo non sapere come avrebbero reagito il mio corpo e quello del mio bambino all’eventuale contatto con il virus che, nella mia zona di residenza, sembrava essersi diffuso da tempo. Purtroppo le incertezze di questa fase non permettevano neppure ai ginecologi di darci informazioni chiare, perché gli studi erano ancora all’inizio».
Oggi i dati accumulati stanno consentendo gradualmente di completare il quadro della gestione del parto e del puerperio e dei rischi per madre e nascituro relativamente alla COVID-19, anche se alcuni aspetti sono ancora oggetto di definizione, ma la portata emotiva a cavallo dei mesi di febbraio e marzo era particolarmente intensa proprio per via dei tanti dubbi.
I genitori del tempo della pandemia hanno anche dovuto fare i conti con l’improvvisa riduzione della rete sociale di sostegno, emotivo e pratico, che spesso è un importante punto fermo su cui fare affidamento. Questo problema è stato particolarmente avvertito da Chiara, i cui genitori vivono in Puglia. «Avevo immaginato l’ultimo tratto della gravidanza e il momento del parto – ci ha raccontato – come un’occasione irripetibile da vivere insieme alla mia famiglia d’origine, che è molto unita ma abita lontano. Non vedevo i miei da agosto, ma ero certa che avremmo recuperato vivendo insieme questi momenti, della cui unicità eravamo ben consapevoli». Le notizie che si susseguivano, però, avevano fatto intuire ai futuri genitori che le cose sarebbero andate diversamente. «Chiara è stata ricoverata in ospedale a Lodi il 6 marzo, quando era attiva la zona rossa proprio a ridosso di casa nostra», ricorda Daniele. «L’8, il giorno in cui è nato Federico, il confinamento era già in atto. A quel punto era chiaro che avremmo dovuto gestire da soli le prime fasi della vita di nostro figlio», aggiunge.
È in momenti simili che si ha modo di apprezzare particolarmente il sostegno dei professionisti che accompagnano i genitori in queste fasi. Nel complesso, Chiara e Daniele si dicono soddisfatti dell’aiuto ricevuto. Al contrario di altre coppie, avevano fatto in tempo a concludere il corso pre-parto, al quale avevano partecipato entrambi. «Crediamo molto nella co-genitorialità – ci hanno detto – e pensiamo che sia importante sentirsi investiti tutti e due delle gioie e delle responsabilità di avere un figlio». Aggiunge Chiara: «Durante il corso abbiamo avuto modo di parlare anche con la psicologa dell’ospedale, una figura che per me è stata molto importante sia prima del parto sia dopo, per il sostegno ricevuto nel periodo dell’isolamento». «La frequenza del corso pre-parto è stata importante anche per prepararmi a dare il giusto sostegno alla mia compagna, che avrebbe potuto sperimentare alcune sensazioni di disagio psicologico molto comuni nelle donne che hanno partorito e, in ogni caso, per avere un’idea di ciò che ci saremmo trovati ad affrontare», dice Daniele.
Il parto si è svolto in un clima piuttosto positivo: il personale è stato molto attento e presente ed è riuscito a trasmettere serenità ai due genitori, perché le procedure, sebbene avviate in tutta fretta, sembravano ben organizzate. Durante il ricovero Chiara ha indossato la mascherina, che però ha potuto togliere nel corso del travaglio, per respirare più agevolmente. Daniele ha avuto la possibilità di rimanere vicino a Chiara durante il travaglio e in sala parto, il che ha rappresentato per lei un sostegno importante. In altri ospedali questo non è stato permesso e il distacco è stata fonte di disagio per diverse coppie. Chiara e Daniele hanno anche apprezzato il fatto che l’ambiente fosse raccolto e che in camera non ci fosse la TV, che avrebbe catapultato i genitori nel clima caotico delle tante notizie allarmanti riportate dalla cronaca.
«Tutto il personale dell’ospedale si è dimostrato vicino e attento, anche se i dispositivi di protezione limitavano la possibilità di comunicare con le espressioni del volto, rendendo l’interazione un po’ strana. Ma l’impegno e lo sforzo erano evidenti». Le misure di contenimento hanno reso necessario che la visita con le ostetriche dopo le dimissioni si svolgesse in casa, e anche in questa circostanza i genitori hanno apprezzato il prezioso aiuto nella gestione dell’allattamento e delle prime cure al bambino.
«Il parto in questo periodo ci ha obbligati a fare i primi controlli di crescita a distanza», aggiunge Chiara. «La nostra pediatra è stata sempre disponibile e prodiga di consigli e informazioni, ma nei primi tempi abbiamo dovuto comunicare solo telefonicamente o con i servizi di messaggistica. Soltanto da poco la dottoressa ha potuto visitare in presenza il bambino». «Dapprincipio – ricorda Daniele – tutto questo è stato un po’ stressante. Da genitori inesperti, avevamo paura di non riuscire a riferire con precisione tutti i dati e che ci sfuggisse qualche particolare fondamentale».
Non meno importante del sostegno professionale è stato il contatto, sebbene mediato dalla tecnologia, con le famiglie d’origine dei due genitori. «Inizialmente – sottolinea Chiara – io e Daniele avevamo la sensazione di vivere la nostra gioia in modo attutito e incompleto, per l’impossibilità di condividerla. Ma per evitare che il senso di solitudine prevalesse su quello di gioia, abbiamo sfruttato tutti i mezzi a disposizione per consentire ai nonni di seguire le fasi della crescita e i piccoli progressi quotidiani: bagnetti, sorrisi, poppate… Non potevamo permetterci di sciupare istanti irripetibili». Al termine del periodo di confinamento, i nonni paterni hanno potuto incontrare dal vivo il piccolo, mentre quelli materni ancora no. «Però l’interazione, chiaramente, non è serena come sarebbe stata in altre circostanze, perché è filtrata dai continui lavaggi e disinfezioni delle mani e dalle mascherine che nascondono le espressioni del volto», aggiunge Chiara. «Ogni tanto ci domandiamo quali conseguenze questo clima potrà avere sul nostro bambino. Probabilmente, tutto sommato, lo aiuterà il fatto di aver vissuto un periodo del genere appena nato, mentre forse sarà più difficile per i bimbi di 2 o 3 anni. Ma è una domanda che talvolta torna a farsi sentire», aggiungono i due genitori.
Tra le preoccupazioni più stringenti sul piano sanitario, Chiara cita il fatto di non essere stata sottoposta al tampone, che è invece diventato una prassi subito dopo. Nella stessa stanza di Chiara c’era un’altra partoriente, quindi entrambe erano esposte al rischio di contagio.
Un altro nodo delicato è stato quello della comunicazione. «In quei momenti così ricchi di emotività, a me è capitato di fare meno domande rispetto a quanto avrei voluto, forse perché temevo che le risposte non potessero essere rassicuranti», ricorda Chiara. «Mi chiedevo spesso che cosa sarebbe accaduto se fossi risultata positiva. Avrei potuto prendermi cura del mio bambino? Ci avrebbero separati? Sarebbe stato di grande aiuto avere informazioni al riguardo». «Una volta a casa, poi, abbiamo sperimentato il caos dei tanti messaggi contrastanti – sottolinea Daniele – soprattutto provenienti dai media. In TV gli esperti sembravano contraddirsi continuamente e questo non ci rasserenava e ci dava l’impressione di non poterci fidare pienamente di nessuno. Una migliore gestione della comunicazione, soprattutto da parte delle istituzioni, sarebbe stata auspicabile».
Divulgatrice scientifica, è socia effettiva e presidente della sezione pugliese del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) e membro del direttivo dell’associazione professionale di comunicatori della scienza SWIM. Scrive per diverse riviste cartacee e online, tra le quali Le Scienze, Mind, Uppa, Focus Scuola, Wired.it, Wonder Why, Scientificast.