Per chi aspetta un bambino, la gioia è obbligatoria. A chiunque diciate «sono incinta», dalle prime persone con cui avete condiviso la notizia – il vostro compagno o la vostra compagna, la mamma, una sorella – a tutti quelli che avete incontrato e incontrerete nei nove mesi di attesa, la reazione sarà sempre più o meno la stessa: «Davvero? Ma che bello!».
È vero: è bello, sia che la gravidanza sia stata cercata e programmata, sia che sia arrivata un po’ a sorpresa. Una volta deciso che sì, quel bambino sarà il benvenuto e diventerà parte della nostra vita, pensarlo, immaginarlo, parlarne, e poi sentirlo dentro di sé produce emozioni dolci e positive, tenerezza, speranza, amore.
Ma l’attesa di un figlio dà luogo anche a un processo di profondo cambiamento. Cambia il corpo, che manda segnali per niente gradevoli – nausea, vomito, mal di schiena, mal di testa; che si appesantisce e rende difficile fare tutto quello che si faceva prima – vestirsi come prima, muoversi come prima. Cambia l’immagine di sé e del proprio futuro, in cui dovrà trovare posto quel bambino e in cui bisognerà costruire nuovi equilibri – nei tempi, negli impegni, nelle relazioni. La comparsa di emozioni “fuori copione” (ansia, insicurezza, irritazione) può essere difficile da condividere, e addirittura preoccupare la futura mamma: «È normale che mi senta così? Non vorrà dire che non sono, che non sarò, una brava mamma?».
Il timore di non essere brave mamme può diventare un pensiero ricorrente, indesiderato e spiacevole, che si fa vivo a tradimento e compromette la serenità di quel momento della vita (all’interno del nostro corso preparto online, vi forniamo tutti i consigli utili per gestire questo aspetto).
Non è un timore del tutto negativo: in fondo ci si sta preparando a un compito impegnativo e, nel caso di una prima gravidanza, completamente nuovo. Essere preoccupate, essere consapevoli delle difficoltà che quel compito comporta, è legittimo e realistico, contribuisce ad attivare la motivazione e a mantenere viva la determinazione che consentirà di attraversare i diversi momenti della maternità.
Quel timore, però, diventa nocivo nel momento in cui comincia a essere dominante, e i compiti che ci aspettano cominciano ad apparire enormi, al di là delle nostre forze.
L’aumento delle preoccupazioni sulla gravidanza, il parto, l’allattamento, l’accudimento del bambino – sull’essere mamme, insomma – è legato a un’immagine “eroica” della maternità, che è stata alimentata da un eccesso di indicazioni, regole, consigli diffusi da riviste e manuali vari, e dal proliferare di gruppi social in cui l’esperienza di avere e allevare un bambino viene descritta come una serie di prestazioni in cui una “brava” mamma deve dare il meglio di sé, dimostrare di essere sempre all’altezza, e magari, se possibile, battere anche qualche record. Una specie di nuovo sport olimpico, in pratica.
In realtà, l’esperienza della maternità è un’esperienza di relazioni: la relazione speciale, unica, con il bimbo che deve nascere; le relazioni con i familiari, con chi è più vicino alla mamma in quella fase della vita; le relazioni con i professionisti che affiancano la donna nel corso della gravidanza: l’ostetrica, il ginecologo, il medico di famiglia. Per vivere bene l’attesa è importante pensare a quelle relazioni come a una rete protettiva, e come a una riserva di risorse da utilizzare al meglio: immaginare la maternità come un’avventura solitaria è rischioso, e ingiustamente faticoso.
I timori delle mamme alla prima esperienza riguardano sia gli aspetti legati al benessere e alla salute propria e del bimbo, sia gli aspetti legati alle incombenze che le attendono nei primi mesi di vita del piccolo.
Preoccupazioni che ovviamente si mescolano: uno dei cambiamenti più profondi prodotti dall’esperienza di maternità è la comparsa di quella che è stata definita “preoccupazione materna primaria”, una condizione emotiva che porta la mamma a mettere in primo piano il benessere del bambino prima ancora che venga alla luce. Se questa condizione diventa prevalente, può svilupparsi il timore di danneggiare in qualche modo il piccolo durante la gravidanza, con conseguenti ansie per tutto ciò che si mangia e la paura di contrarre qualche infezione pericolosa. Sorgono timori legati al parto, e diventa quindi difficile scegliere come e dove partorire, o da chi farsi assistere. Si acuiscono i timori per la propria “resistenza” nei mesi in cui il benessere del bambino dipenderà totalmente dalla capacità della mamma di allattarlo al seno a qualunque costo, di sopportare fino all’estremo l’affaticamento, la mancanza di sonno, la tensione provocata dal pianto di un neonato…
La domanda «Sarò in grado?» può diventare motivo di ansia, di insicurezza, di malessere. Il benessere e la salute, fisica ed emotiva, della donna sono invece una componente fondamentale dell’“essere una brava mamma”: una brava mamma è innanzitutto una persona che sa prendersi cura di sé, per potersi prendere cura del suo bambino con tutte le energie e l’equilibrio che questo compito richiede.
Tale equilibrio non lo si può raggiungere da sole: in tutto il percorso della maternità è importante sentirsi circondate da relazioni valide e positive. Con il proprio partner innanzitutto, con cui è bene parlare per tempo di ciò che potrà, vorrà, saprà fare nel suo ruolo di papà. La collaborazione nell’accudimento di un neonato non si può improvvisare, va preparata – anche se poi la realtà è sempre un po’ diversa da come avevamo immaginato –, tenendo conto in modo realistico delle caratteristiche di “quel” papà, dei suoi tempi di lavoro, della sua situazione.
Relazioni valide significa anche relazioni selezionate. Visto che l’immaginario collettivo prevede che una donna incinta sia un po’ “capricciosa” – le “voglie” sono ammesse in quasi tutte le culture –, concedetevi di essere “capricciose” anche per quello che riguarda le persone: chi non vi fa stare bene, chi vi bersaglia di critiche su come vi comportate, o di racconti terribili sul parto, sull’allattamento, sui drammatici primi mesi del bambino fra pianto ininterrotto, coliche, rigurgiti e diarree; chi vi riempie di consigli e indicazioni infallibili sul miglior ginecologo da cui farsi seguire, il miglior ospedale a cui affidarsi, il miglior professionista alternativo a cui rivolgersi invece di farsi “incantare” dalla medicina ufficiale; chiunque, insomma, interferisca nella ricerca del vostro equilibrio fra legittima preoccupazione e fiducia nelle potenti risorse che la natura mette a disposizione della donna nel percorso di maternità, va tenuto gentilmente a distanza.
Selezionate le amiche vere, quelle che vi fanno ridere e non vi obbligano a pensarvi solo come una macchina da riproduzione da tenere in perfetta efficienza.
Selezionate chi vi seguirà fino al parto e oltre – l’ostetrica o il ginecologo di cui sentite di fidarvi – e con quelle persone siate oneste e sincere, esprimete paure e dubbi senza timore di essere giudicate sciocche o fifone.
Costruite in anticipo una rete di sostegno che sia pronta ad affiancarvi dal momento in cui tornerete a casa con il neonato fino a quando non sentirete di avere la situazione “sotto controllo”: più gli aiuti nelle prime settimane saranno validi, più sarà facile acquisire una buona routine, con ritmi adeguati alle caratteristiche del vostro bambino e alle vostre esigenze di sonno, riposo e anche svago e sollievo dai compiti di accudimento.
Questo evita il rischio che la “preoccupazione materna primaria” – che lo psicologo Donald Winnicott ha definito “malattia fisiologica”, cioè una condizione anomala ma necessaria, purché di breve durata e attraversata con equilibrio – diventi una condizione stabile che compromette la salute e il benessere psichico della mamma, e di conseguenza quelli del bambino.
All’immagine della “supermamma” eroica, che tutto supera e sopporta per il bene del suo bebè, potremmo provare a contrapporre quella della mamma di alcune culture orientali, alla quale è dovuto, per almeno quaranta giorni, lo stesso accudimento che si riserva al neonato: parenti e amiche si prendono cura di lei, la coccolano, la riempiono di attenzioni e anche di piccoli regali, badano alle necessità del bambino condividendole gradualmente con la madre. Pare che in quelle culture il baby blues, per non parlare della depressione post-parto, sia sconosciuto.
Anche se non possiamo trasportare altre tradizioni e altre culture nel mondo in cui viviamo, possiamo però accoglierne il significato: una mamma serena e non stressata, non stremata, non esausta è una mamma migliore. Questo cambia un po’ la prospettiva: la domanda preoccupata «Sarò una brava mamma?» può diventare «Come posso farmi aiutare a essere una mamma serena e non stremata?».
psicologa, psicoterapeuta della famiglia e docente di counselling alla Scuola di specializzazione in Pediatria dell’Università di Torino, ha elaborato il metodo del counselling sistemico narrativo, che utilizza nella formazione dei professionisti e negli interventi per lo sviluppo delle competenze genitoriali. Ha fondato la scuola di comunicazione e counselling CHANGE di Torino.