«O mangi la minestra, o salti dalla finestra». Quante volte si condisce un pasto in famiglia con un’affermazione di questo tipo? Ma questo modo di dire funziona veramente?
La riluttanza del bambino a mangiare o provare nuovi alimenti, in particolare frutta e verdura – la cosiddetta “neofobia” ai cibi –, è soprattutto di natura genetica. Ai tempi dei nostri progenitori, migliaia di anni fa, non volersi avvicinare a cibi nuovi o a vegetali colorati era infatti un istinto utile al bambino, che in questo modo evitava di assaggiare frutti, bacche o radici potenzialmente velenose. Oggi, con il profondo cambiamento dell’ambiente in cui viviamo, questo atteggiamento potrebbe avere invece un effetto nocivo perché favorisce l’esclusione di alimenti a elevata qualità nutritiva.
Riconosciamo sapori e odori ancor prima di nascere: olfatto e gusto sono già in azione durante gli ultimi mesi di gravidanza. Ogni alimento che la mamma assume con la dieta rilascia il suo odore nel liquido amniotico e da qui viene “imparato”, ossia riconosciuto e apprezzato dal feto. Ad esempio, se la mamma in gravidanza mangia alimenti che contengono aglio, e poi ne mangia anche mentre allatta, il bambino succhierà con più vigore quando riconoscerà nel latte il sapore di cui aveva già fatto esperienza durante la vita fetale.
Possiamo dire che una dieta ricca di sapori durante la gravidanza è una buona cosa e che non esiste un “sapore cattivo” del latte, ma tanti sapori quanti sono i cibi che la mamma mangia. Non ci sono quindi, durante la gravidanza e l’allattamento, alimenti da evitare per via del loro gusto. Anzi, se la mamma che allatta mangia cibi con un sapore particolare, per esempio la carota, quando il bambino inizierà ad assaggiare gli alimenti solidi, durante il periodo dell’alimentazione complementare, preferirà proprio la carota, che ha conosciuto durante le poppate.
L’allattamento al seno è una scuola di educazione al gusto, e il miglior modo per iniziare i propri figli alle verdure, dunque, è esserne le prime consumatrici.
Un recente studio ha valutato gli esiti di diverse modalità per offrire vari tipi di cibo durante i primi mesi dell’alimentazione complementare. Dai risultati si evince che quando le verdure vengono proposte subito, prima di altri alimenti, è più facile che il bambino, in periodi successivi, apprezzi nuove verdure. Inoltre, più assaggi di diverse verdure propone il genitore e più facile è l’accettazione di nuovi cibi. In altre parole, è bene offrire una ricca varietà di sapori già dai primi assaggi di cibi solidi e proporre con regolarità la verdura fin dalle prime degustazioni. In questo modo si raggiungono due obiettivi preziosissimi: un menù settimanale ricco e variato e il consumo di verdura. Un grande vantaggio, considerato che nei Paesi occidentali le malattie legate a una cattiva alimentazione sono molto diffuse.
Molti genitori pensano di dover seguire un rigido ordine nella proposta di nuovi alimenti, per tenere sotto controllo la comparsa di eventuali reazioni allergiche. Altri riducono la varietà di alimenti che si possono offrire semplicemente perché loro stessi sono di gusti difficili. Ambedue questi atteggiamenti danneggiano l’esperienza gustativa del bambino in un periodo fondamentale per l’educazione al gusto.
Se nostro figlio evita alcuni alimenti, questo non significa che non potremo più sottoporglieli. Fino all’età di un anno, infatti, riproporre un alimento rifiutato ha spesso un immediato successo, mentre tra l’anno e i 2 anni lo si deve riproporre fino a cinque-dieci volte, per ottenere che venga assaggiato, e addirittura anche più di 15 volte per i bambini di 3-4 anni. Riproporre nel menu un cibo non gradito, o non conosciuto, alla lunga allenta le resistenze del bambino. Quindi, prima iniziamo meglio è.
La cosa più importante è non cercare di convincere il bambino, non offrirgli il cibo in modo esplicito ad esempio dicendo: «È buono, mangialo!». In questo modo il bambino tenderà a insistere nel rifiuto. Uno studio inglese ha rivelato che il modo migliore per far mangiare un bambino è metterlo seduto a tavola con i genitori e far sì che possa servirsi liberamente dei cibi che ha di fronte. Ciò che è importante, inoltre, non è sapere quanto cibo mangerà (questa, ricordiamoci, è una responsabilità del bambino), ma scegliere la qualità degli alimenti. A ogni pasto, quindi, il piccolo dovrà trovare in tavola frutta e verdura disponibili per tutti e osserverà i genitori che se ne serviranno regolarmente. Se noi adulti ci alimentiamo bene, saremo degli ottimi modelli per nostro figlio.
A tale scopo, sarà fondamentale anche il dialogo, ne parliamo in questo articolo.
Per tornare all’espressione popolare con cui abbiamo aperto l’articolo, i ricercatori l’hanno messa alla prova, o meglio, hanno messo alla prova l’atteggiamento con cui si intima fermamente di finire quello che si ha nel piatto.
In un esperimento, a un gruppo di bambini di una scuola dell’infanzia venne chiesto ripetutamente di finire di mangiare, mentre a un secondo gruppo non fu fatta alcuna pressione. Alla fine del pasto, i bambini forzati a terminare la minestra di verdure avevano mangiato meno e raccontarono che il cibo non era buono, al contrario del gruppo che invece aveva mangiato liberamente.
Anche l’abitudine di rivolgere lodi o quella di offrire ricompense al bambino che finisce il cibo che ha nel piatto è fallimentare. Sono stati condotti numerosi studi su questo comportamento educativo, e i risultati, nella maggior parte dei casi, si sono rivelati negativi o sconfortanti. Perché? Perché se c’è di mezzo una ricompensa il cibo rischia di diventare soltanto il mezzo per arrivare al premio, e si annulla la possibilità di vivere lo stare a tavola come un’esperienza di piacere condivisa da tutta la famiglia. Ricompensare rischia anche di rimuovere le motivazioni interiori, intime, che spingono a fare qualcosa, sostituendole con altre esterne, al di fuori dei reali interessi del bambino.
Appena furono trasmessi i primi cartoni animati di Braccio di Ferro il consumo di spinaci in scatola salì alle stelle: l’eroe è sempre un ottimo testimone per aumentare le vendite. Non è un caso che per molte pubblicità di alimenti o snack vengano scritturati atleti celebri o attori famosi.
Un esperimento condotto presso una scuola dell’infanzia in Olanda ha verificato che la lettura di libri illustrati può modificare il comportamento alimentare del bambino. Un gruppo di bambini ascoltava la maestra leggere ad alta voce un libro in cui l’eroe, Tartaruga o Lepre, mangiava le carote. Un secondo gruppo di bambini partecipava alla lettura con domande o spiegazioni. Questi due gruppi iniziarono a preferire per i loro pasti alimenti preparati con carote, a differenza di un terzo gruppo di bambini che non aveva partecipato alle letture. I bambini che interagivano con la maestra addirittura raddoppiarono il consumo di carote. Questa esperienza dimostra dunque che la partecipazione a un’esperienza narrativa insieme a un adulto può favorire l’appetibilità di un alimento in genere poco amato.
Pensiamo a quanta televisione i bambini guardano durante il giorno e agli eroi che vedono passare sullo schermo. Vi siete mai fermati a pensare alla pubblicità o agli esempi di pasti non proprio salutari consumati nelle serie televisive che accompagnano quotidianamente i nostri figli?
Un gruppo di bambini di 3-4 anni è stato coinvolto in uno studio nel quale gli veniva chiesto di assaggiare alcuni cibi e bevande e alla fine scegliere quelli che preferivano. Gli alimenti venivano offerti a coppie: uno era incartato in maniera anonima mentre l’altro esibiva il nome di una nota marca molto pubblicizzata. Nonostante i cibi e le bevande fossero perfettamente identici (carote, patatine, pollo, latte, succo di mela), i bambini sceglievano soprattutto quelli in una confezione ben riconoscibile. La ricerca ha stabilito anche che la preferenza per il cibo di marca era direttamente proporzionale al numero di televisori presenti nell’abitazione: più tempo i bambini trascorrono davanti alla TV, più viene educato il loro gusto. Combattere contro il potere (dis)educativo della pubblicità è molto difficile per un genitore. Cosa fare allora? Non vietare i programmi televisivi, certamente, ma promuoverne una fruizione parsimoniosa e consapevole.
comasco di nascita, ha studiato a Parma, dove si laurea in Medicina e si specializza in Pediatria, e successivamente in Neonatologia e Patologia neonatale. È autore di oltre 70 pubblicazioni scientifiche italiane e internazionali peer-reviewed, e collabora con Uppa da diversi anni con articoli di divulgazione pediatrica.