Comunemente si pensa che educare un bambino voglia dire insegnargli il rispetto delle regole e riempirlo dei valori della propria famiglia, della cultura e della società. Anche le istituzioni scolastiche spesso sono orientate a immettere nel bambino nozioni, abilità, competenze e apprendimenti. Il bambino è visto come un contenitore vuoto da riempire.
Ma è davvero così? Propugniamo tanto l’importanza dell’autonomia e poi nel contempo chiediamo al bambino di essere sì autonomo, ma che faccia le cose che decidiamo noi adulti. Questo modello di educazione affonda i suoi retaggi nella psicologia comportamentale dove, secondo gli esperimenti di Ivan P. Pavlov (1903), si dava un rinforzo positivo (il cibo) al topo per fargli fare certe scelte e un rinforzo negativo (una scarica elettrica) per evitare che ne facesse altre. Sembrano tempi lontani e invece molti di noi sono cresciuti così: con i premi e le punizioni, con le caramelle e i castighi. Nel mio lavoro di pedagogista vedo che ancora persistono sistemi educativi fondati sul condizionamento e il potere, dove c’è chi vince e chi perde, chi comanda e chi esegue, chi impone e chi obbedisce e quando ciò non succede perché i figli, gli alunni, i ragazzi non rispondono come vorremmo, gli educatori sono assaliti da un senso di rabbia, di dispiacere e d’impotenza.
Il potere più grande che possiamo avere non è certo sugli altri, ma su di noi, ed è questa la grande lezione che la pedagogia basata sull’empatia ci dona ogni giorno. Ecco allora che educare con empatia vuol dire rispetto profondo per il proprio sentire grande o piccolo che sia, vuol dire ascoltare il significato che ognuno di noi attribuisce al suo mondo interno, è avere fiducia nelle competenze e qualità umane che sono dentro di noi, come un germoglio fin dalla nascita.
Quando i comportamenti dei bambini e dei ragazzi sembrano ai nostri occhi incomprensibili, quello è il momento per fermarsi a osservare, ad ascoltare senza giudicare, lasciandosi la possibilità di non sapere e di non saltare a conclusioni affrettate, perché ogni persona ha sempre un motivo valido per esprimere i suoi no e i suoi dissensi.
Il bambino non è un contenitore vuoto perché già nella vita prenatale vive immerso nel suo ambiente fertile e, successivamente, il suo crescere sarà garantito da un ambiente che facilita il suo sviluppo emotivo, fisico e spirituale e sarà quella base sicura, come direbbe John Bowly (1988), che creerà i legami che sono il fondamento da cui partiamo per affrontare tutta la nostra vita e che gli consentiranno di dare frutto a tutte le proprie competenze. Educare con empatia vuol dire entrare in relazione con i nostri figli, vuol dire arricchirsi dell’ascolto di un altro essere umano che è venuto a dirci qualcosa, «guarda c’è un’altra vita, vivi meglio» come diceva Maria Montessori (Il bambino in famiglia, 1956, p. 38).
Significa provare a mettersi nei suoi panni per sentire come lui sente, per vedere come lui vede e per osservare come a lui appare il mondo. Significa superare il concetto che educare vuol dire mettere dentro qualcosa, ma cambiare prospettiva e ascoltare cosa il bambino ha dentro di sé, per promuovere un clima che lo faciliti a tirare fuori tutto il suo potenziale.
L’adulto, il genitore, l’educatore, in tutto questo non è “sottomesso” al volere del bambino e neanche un propulsore di soluzioni. È semplicemente in relazione, dove essere in relazione non vuol dire essere d’accordo con tutto quello che chiede il bambino, ma essere un educatore capace di dare un senso al saper aspettare, al tollerare la frustrazione per darsi del tempo, al non intervenire subito con le soluzioni in tasca.
L’adulto sa stare semplicemente lì nel problema e tenta di comprendere sul piano dell’empatia quello che il bambino prova e quali sono i suoi bisogni più profondi. Sempre più spesso invece mi capita di ascoltare adulti che scoprono che l’autorità, l’educazione fondata sulla paura, man mano che i figli crescono, non funziona più e si sentono frustrati nel non avere più alcuno strumento educativo.
La crisi del ruolo educativo è spesso collegata alla crisi degli adulti. Alba Marcoli scrive: «Non è facile però uscire dagli schemi rigidi, sono quelli che sostengono le nostre fragilità: più ci si sente fragili e più si ha bisogno di puntelli solidi per stare in piedi» (La rabbia delle mamme, 2011, p. 69). Se per primi noi adulti siamo capaci di sentire il nostro mondo interiore e siamo in grado di provare empatia per noi stessi, sarà poi più facile farlo con i nostri figli. Infatti, risulta difficile essere in ascolto, accoglienti, fiduciosi con gli altri se non riusciamo a farlo prima con noi stessi. Proprio questa mancanza di ascolto di noi stessi è la fonte delle nostre rigidità e delle nostre ansie.
Ecco la rivoluzionaria prospettiva che siamo chiamati ad agire come adulti che vogliono educare con empatia: riuscire prima di tutto a donare empatia a noi stessi e, partendo da questo, riuscire più facilmente a condividerla con i nostri bambini e ragazzi. Ecco ora alcuni spunti pratici che possiamo cercare di sviluppare per educare con empatia.
C’è una bella notizia per tutti noi. L’empatia fa parte del nostro bagaglio di esseri umani, si tratta solo di non dimenticarlo. Occorre non chiudersi nel nostro ruolo di professionista, di genitore, d’insegnante, ma avere il coraggio di avvicinare l’altro da essere umano a essere umano, dalla nostra all’altrui vulnerabilità.
Una persona che usa le sue qualità empatiche è capace di sviluppare relazioni sincere, efficaci e rispettose per sé stesso e per gli altri, e una persona con buone relazioni è generalmente una persona felice. Coltivare l’empatia vuol dire coltivare la felicità in ognuno di noi. Si può partecipare a corsi e incontri sull’empatia, ormai se ne stanno sviluppando molti fondati sulla psicologia umanistica (Carl Rogers). Inoltre, ci sono corsi per genitori sul modello improntato da Thomas Gordon, gli incontri di CNV (Comunicazione Non Violenta) fondati dall’approccio di Marshall B. Rosenberg oppure percorsi pedagogici che tengono insieme più approcci per permettere a ogni genitore di sviluppare un proprio metodo educativo. L’empatia per noi stessi è un atteggiamento interno di accoglienza e di rispetto perché suggerisce di porci più domande che risposte. Le domande alleggeriscono e aiutano a vedere più prospettive al medesimo problema e danno l’opportunità di scoprire insieme ai nostri figli le risposte. Avere in tasca sempre la risposta o la soluzione ai problemi dei figli implica solo un modo di vedere le cose: il nostro.
Nessun essere può crescere e sviluppare i propri talenti senza avere lo spazio per farlo, con i suoi sbagli e le sue conquiste. Possiamo parlare con i nostri figli riguardo a quello che ci preoccupa, possiamo chiedere loro cosa ne pensano, possiamo cercare di passare del tempo ad ascoltarli provando a entrare nel loro mondo. Molti genitori si lamentano che i ragazzi non parlano più e passano molto tempo a guardare, ad esempio, i video che girano in rete: anche con loro possiamo praticare l’empatia, regalandoci un po’ di tempo per guardare insieme ciò che li appassiona, soffermandoci sui sentimenti che provano quando sono davanti a quelle immagini.
Possiamo poi commentarli, parlando con loro su come ci si può sentire nelle situazioni proposte nei video e magari imparando a leggere le espressioni corporee che ci comunicano. Possiamo trovare sempre un modo per praticare l’empatia perché non si può non comunicare: anche il silenzio è una forma di comunicazione.
Quante volte ci capita di dire ai nostri figli: «Cerca di fare il bambino grande!», «Non piangere!», «Basta, non continuare a lamentarti»? Queste espressioni bloccano i sentimenti e non danno il tempo ai nostri figli di ascoltare le loro emozioni e di prendersene cura.
È comprensibile che ogni genitore non desideri veder soffrire il proprio figlio, ma a dispetto di quello che può sembrare, è proprio bloccando i sentimenti del bambino che ne impediamo lo sviluppo emotivo. Invece, accogliendo ciò che prova gli doniamo fiducia e rispetto per i suoi sentimenti.
Porsi in ascolto dei sentimenti non vuol dire FARE qualcosa ma STARE su quello che si prova, non facendosi travolgere dai nostri sentimenti e dal desiderio di porre fine al più presto a quel lamento o a quella situazione. Quel sentimento a volte urlato dai nostri figli ci dice solo che c’è bisogno di un momento per fermarsi e porre attenzione.
Per quanto ai nostri occhi di adulti possa sembrare sorprendente, ci sono sempre delle buone ragioni, delle spinte interne per cui un bambino fa quello che fa o dice quello che dice. Provate a guardare il mondo con i suoi occhi, a camminare nelle sue scarpe, ad ascoltare con il suo cuore. Essere consapevoli del suo sviluppo evolutivo ancora in crescita su tanti aspetti fisici e psicologici ci aiuta a capire meglio la prospettiva dal suo punto di vista.
Se un bambino piange, si dispera, si butta per terra possiamo iniziare a nominare i sentimenti che prova e a dar loro un senso. «Ti vedo proprio arrabbiato perché vorresti un altro biscotto e invece sono finiti!», oppure se ci sta comunicando attraverso un’opposizione o un lamento una situazione che non gradisce, troviamo sempre il tempo per rimandargli il suo sentire: «Sei stufo di camminare, vorresti arrivare presto…». Il regalo più grande che possiamo fare ai nostri figli è far sentire loro che li abbiamo compresi anche se non possiamo dare il biscotto che non c’è o abbiamo la necessità di arrivare a destinazione.
La vulnerabilità ci rende persone e non ruoli statici. Il ruolo del genitore, dell’educatore può indurre a pensare che dobbiamo essere il più possibile simili all’immagine, rigida, che abbiamo nella nostra testa e che non ci è concesso far vedere i nostri sentimenti e i nostri bisogni.
Una comunicazione empatica si basa invece sul mettere a nudo anche i nostri lati più sensibili e vulnerabili, perché ognuno possa essere così com’è e non come pensiamo dovrebbe essere, instaurando un rapporto di trasparenza, sincerità e lealtà con noi stessi e con gli altri. Thomas Gordon afferma che ci riusciamo meglio se proviamo a comunicare in prima persona dandoci l’opportunità di esprimere come ci sentiamo di fronte al comportamento di nostro figlio invece che etichettarlo con qualche frase che sottende che lui è sbagliato.
Mostrare i propri sentimenti non toglie nulla al genitore e al suo ruolo educativo. Allo stesso modo anche al bambino è permesso di essere così com’è, di fare le sue esperienze e di sviluppare tutte le sue competenze nel rispetto e nella considerazione delle sue inclinazioni. Questo può accadere quando il genitore non si affretta a dare consigli o soluzioni perché tutte le volte che diciamo a qualcuno cosa dovrebbe fare, gli impediamo di scoprire la soddisfazione di essere riuscito a farlo da solo. Il genitore in ascolto si premura di offrire opportunità, strumenti e materiali che possano permettere al bambino di fare esperienza delle proprie competenze e di vivere la vulnerabilità dei propri sbagli come un’occasione di crescita.
«Sei sempre il solito ingrato», «Sei un bambino pigro». Quando dalla nostra bocca escono alcune di queste affermazioni occorre fermarsi perché è molto probabile che un nostro bisogno sia stato frustrato. La cosa che molti di noi hanno imparato a fare quando qualcosa non ci piace è dire all’altro che cosa non va in lui, invece di riconoscere che cosa avremmo voluto noi. Riuscire a distinguere i nostri sentimenti rispetto a ciò che fa l’altro da quello che invece proviamo noi è un buon modo per entrare in relazione.
La relazione si fonda sui bisogni di ognuno. Ad esempio, invece di dire ai nostri figli che sono ingrati, possiamo esprimere il nostro bisogno di comprensione e di considerazione e, invece di giudicare il comportamento dell’altro come pigro o in innumerevoli altri modi in cui diciamo cosa è, o non è, forse sarebbe meglio osservare il comportamento dei nostri figli senza giudicarli. Esprimersi in questo modo: «Vedo la tua camera con i vestiti per terra, una buccia di banana sul comodino e i libri sparsi sulla scrivania» è molto diverso che dire «sei pigro». Osservare qualcuno non mina l’autostima di nessuno e dona all’altro la possibilità di prenderne consapevolezza e decidere di agire diversamente.
«Mia sorella non mi lascia usare i suoi giochi, mentre io lo faccio, lei è un’egoista». I paragoni sono un tipo di giudizio. Nel momento in cui perdiamo la nostra unicità e siamo paragonati a qualcun altro, questo produce infelicità e conflitti.
Un buon modo per prevenire i conflitti è dare il tempo ai nostri figli di risolverli tra loro, se siamo chiamati in causa è buona norma rispecchiare i loro pensieri e i loro sentimenti senza fare paragoni o prendere le parti di uno di loro. Possiamo proporre delle idee di soluzione soprattutto se sono piccoli e non ancora in grado di poterle trovare da soli; fondamentale rimane però l’importanza di consegnare loro la responsabilità di una soluzione condivisa.
I premi fanno perdere la bellezza per cui facciamo le cose. Il bambino non fa un disegno o un compito per ricevere un premio, lo fa per la soddisfazione che prova dentro. Se attribuiamo un premio per ciò che sente dentro rischiamo di far dipendere nostro figlio dai riconoscimenti esterni, invece che aiutarlo a fare le cose che ritiene buone e giuste nel suo intimo.
Le punizioni sono il rovescio della stessa medaglia. Deresponsabilizzano i bambini piuttosto che responsabilizzarli, perché un bambino o un ragazzo punito sarà più interessato a scoprire modi per evitare la punizione, piuttosto che a guardarsi dentro per sentire quello che prova. L’educazione non è un istituto di pena e di colpe. Non si cresce in base a quante più frustrazioni e castighi abbiamo ricevuto. Si cresce quanto più qualcuno ci ha nutrito di fiducia e rispetto per i nostri sentimenti.
Troviamo del tempo per parlare con i nostri figli. Gli argomenti possono riguardare le difficoltà organizzative che stiamo affrontando nella gestione della famiglia o la richiesta d’idee per scegliere la meta per un periodo di vacanze. Qualunque problema può essere affrontato cercando più idee dai nostri figli e insieme a loro è possibile esercitarsi a trovare delle soluzioni che possano andare bene per tutti. I figli osservano, e se vedono che siamo attenti verso noi stessi, accoglienti verso i nostri sbagli, capaci di concederci del tempo per noi e del tempo per gli altri o impegnati a praticare i valori in cui crediamo, sarà più facile per loro fare lo stesso. Troviamo del tempo in famiglia per imparare a essere grati delle piccole o grandi cose che incontriamo nella vita.
Può sembrare banale parlare di gratitudine e tante volte non lo facciamo perché nella nostra cultura spesso siamo stati abituati a vergognarci di noi stessi ma, in realtà, se partiamo dal valore della persona grande o piccola che sia, il riconoscere tale valore vuol dire nutrire la benevolenza, la compassione e l’autostima di ognuno di noi. Ad esempio potrebbe rivelarsi molto utile sostituire i «devo», «devo accompagnare mia figlia a scuola», «devo fargli da mangiare» in «scelgo», «scelgo di accompagnare mia figlia o di fare da mangiare». Imparare a parlare bene aiuterà a rimanere connessi con i nostri valori e sentimenti.
È sempre possibile scegliere di vivere le cose che facciamo ogni giorno in un altro modo, in un modo che arricchisca la nostra e l’altrui vita, scegliendo di coltivare la gratitudine come nutrimento dell’educazione empatica.
pedagogista ed esperta nelle relazioni educative familiari, si occupa di favorire relazioni empatiche. Ha lavorato in progetti educativi rivolti a minori e famiglie in situazione di svantaggio sociale e disagio scolastico, è insegnante di massaggio infantile e consulente alla pari in allattamento. È autrice del libro Nascere e crescere alla luce dell’educazione empatica.