È risaputo che, in passato, alle bambine veniva preclusa l’istruzione e l’accesso agli studi, e che ancora oggi, in molte parti del mondo, il loro diritto a una pari educazione scolastica non è rispettato. Ma c’è un’area dell’educazione in cui a restare “indietro” sono spesso i maschietti: l’educazione emotiva. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta.
Qualche tempo fa un mio paziente quarantenne mi raccontò dell’odio che provava da bambino verso il calcio: non amava affatto giocarci, ma il padre lo aveva comunque obbligato a intraprendere quello “sport da maschio”. Da lì in poi il mio paziente aveva cambiato diverse squadre, perché – a suo dire – non sapeva giocare bene e veniva lasciato sempre in panchina. «Alla fine, però, sono diventato molto bravo, un fortissimo attaccante» mi disse, con gli occhi lucidi. Poi aggiunse: «Scusi, mi emoziono e piango come una femmina». Dietro quella sua “vergogna” nel mostrarmi la sua emotività, ho subito rivisto la difficoltà di tanti bambini, futuri uomini, che evitano di dire cosa vogliono, di cosa hanno bisogno, come si sentono, e che un giorno metteranno da parte la sensibilità e la compassione, come se fossero fardelli pesanti da portare, vestiti stretti da indossare.
Lo spazio della psicoterapia mi restituisce, attraverso i racconti degli adulti, le immagini di bambini che fanno i conti con una sorta di conquista del loro “scettro” di virilità, un qualcosa che non lascia spazio alla dolcezza e alla sensibilità, erroneamente interpretati dalla società come attributi femminili (quindi segni di debolezza?). Chi ne paga le conseguenze non sono solo le donne, ma anche gli uomini, che in questo modo rischiano di perdere il contatto con i propri vissuti: le emozioni non dette, le parole difficili, la tenerezza non condivisa. Insomma, mentre i bambini crescono, diventando ragazzi e poi adulti, sembra diminuire la loro possibilità di esprimere quello che provano, come se a un certo punto perdessero la chiave di accesso al mondo emotivo.
Ma quando inizia tutto ciò? Sono i bimbi maschi a buttare via la chiave o siamo noi adulti a non condividere più con loro il codice di accesso? La risposta è che avvengono entrambe le cose. A tal proposito è bene sottolineare che il modo in cui educhiamo i nostri bambini e la cultura che viene loro impartita possono risultare “aggressivi” e “invalidanti”, soprattutto per chi non riesce a stare al passo: il bambino più sensibile e il ragazzo più gentile ed empatico rischiano di diventare oggetto di scherno, proprio perché i loro valori non vengono riconosciuti dal branco e sono, al contrario, considerati estranei, da condannare.
L’educazione alle differenze nasce da piccoli: i colori che scegliamo per le stanze dei bambini e per i loro vestiti; i cartoni che gli facciamo guardare, dove c’è una netta distinzione tra ciò che appartiene al mondo femminile (i trucchi, i vestiti rosa…) e ciò che appartiene a quello maschile (armi, muscoli…). Eppure anche gli uomini piangono, sono tristi o hanno paura, ma queste esperienze emotive vengono soffocate con frasi tipo «Piangere è da femminuccia» o «Non avere paura. Fai l’uomo!».
Per citare il sociologo americano Michael Kimmel, bisogna cambiare prospettiva della questione, rispondendo a una doppia domanda: cosa significa essere un “vero uomo”? E cosa significa invece essere un “bravo uomo”? L’idea è quella di abbandonare l’immagine stereotipata – e incompleta – di “vero uomo” legata all’idea della potenza, della sicurezza, della protezione, e avvicinarsi al “bravo uomo”, nel senso di essere umano a 360 gradi, dotato di forza e debolezza, di sicurezza e insicurezza, di senso di protezione ma anche di necessità di sentirsi protetto.
L’eguaglianza di genere è un dono non solo per le donne, ma anche per gli uomini, dal momento che insegna a questi ultimi a cambiare e sostituire vecchie forme di mascolinità – che bloccano le loro relazioni e il loro benessere emotivo – con nuove forme di identità che includano la libertà di essere sé stessi. Fino ad oggi i bambini hanno vissuto la loro mascolinità come un processo “a togliere” (non piangere, non essere fragile eccetera) e, fin dalla prima infanzia, col timore di essere percepiti dagli altri come deboli. Si tratta di un’equazione errata, data dagli stereotipi di genere, che non permette ai maschi di sviluppare le competenze emotive che le loro coetanee hanno (competenze peraltro universali, basate sul fatto che siamo animali sociali). Ed ecco che le relazioni, l’empatia e le emozioni vengono messe, col passare del tempo, sotto controllo perché considerate femminili, quindi da sminuire.
Tempo fa, un piccolo paziente di 11 anni mi ha detto che a lui la poesia non piace «perché è da femmine». Vuole fare il banchiere per diventare ricco, e dunque ha aggiunto: «Cosa se ne fa un banchiere della poesia?».
Mi sono chiesta: quante opportunità di crescita sta perdendo questo bambino? Quanto è forte l’educazione esterna che lo ha condizionato in questo modo?
Educare i bambini a un tipo di mascolinità basata sul potere e sulla forza non fa altro che creare degli adolescenti e adulti insicuri, bisognosi di dover “agire” la loro mascolinità per dimostrare all’esterno di essere veri uomini. Questo perché se le caratteristiche emotive di un maschio vengono considerate legate all’area del comportamento e non del sentimento, per dimostrare agli altri e a sé stessi di “essere uomini”, i maschi tenderanno a intervenire con azioni coerenti al proprio status sociale di genere. Potremmo riassumere il tutto nel concetto “Deboli no, arrabbiati sì”, col risultato che il rifiuto di certe emozioni rischia di coincidere con il rifiuto del femminile (a tal proposito, va aggiunto che bullismo e violenza di genere derivano proprio da questo tipo di educazione di genere).
Il rischio aggiuntivo è che nel momento in cui questi ragazzi avranno delle difficoltà o dei momenti di sconforto, non potranno comunicarlo (mostrare la propria “debolezza” non rientra, appunto, nel loro codice di mascolinità); un tipo di atteggiamento che rende i maschi adolescenti a rischio di problematiche psicologiche, proprio perché non è possibile un’individuazione immediata e precoce di queste sofferenze nascoste.
Le neuroscienze ci dicono che il cervello ha una sua plasticità, e che le competenze maggiormente adoperate sono quelle rinforzate anche a livello neuronale, mentre, al contrario, le connessioni neurologiche di ciò che non esercitiamo andranno a cadere. Aiutiamo quindi le nuove generazioni a colmare un gap – quello tra maschi e femmine – che non è genetico bensì strettamente culturale. La rabbia o l’empatia sono entrambe possibilità relazionali codificate neurobiologicamente come predisposizioni innate. Sta a noi genitori e alla società guidare i bambini a rinforzare il percorso giusto. Insomma, passare dal sentimento del potere al potere del sentimento è una sfida positiva, una buona strada che bambine e bambini, uomini e donne devono percorrere insieme.