Mi capita spesso di sentire i genitori raccontare che «a volte uno schiaffo vola» quando il figlio esagera e che «uno scappellotto ogni tanto non ha mai fatto male a nessuno». Tale credenza è difficile da smontare, ed è frutto di un’eredità culturale per cui in passato era pratica pedagogica comune utilizzare punizioni fisiche. Oggi le punizioni corporali sui figli sono vietate per legge in diversi paesi del mondo. In Italia, però, manca una legislazione che normi l’argomento, anche se una sentenza del 1996 della Corte costituzionale condanna le percosse sui bambini. In particolare, una ricerca realizzata nel 2012 da Ipsos, per Save The Children, rivela che il 22% di mamme e papà dà uno schiaffo ai figli qualche volta al mese, e se si passa dalla fascia di età 3-5 anni a quella successiva 6-10 anni la percentuale aumenta al 27%.
Tralasciando i casi di violenza familiare conclamata, l’uso dello schiaffo per punire i figli è comunque percepito come gesto sbagliato. Quando giungono all’esasperazione perché i precedenti metodi educativi non hanno avuto alcun effetto, però, molti genitori non negano di ricorrere agli “scapaccioni”.
L’effetto immediato di questo tipo di punizione è che la maggior parte dei bambini, dopo essere stati “sculacciati” o “schiaffeggiati”, interrompe il comportamento sbagliato e aderisce alle richieste dei genitori, ma non interiorizza la regola educativa.
Le ricerche dimostrano che la punizione fisica sui bambini, anche se saltuaria o di lieve entità, non ha conseguenze positive perché i bambini puniti fisicamente rinforzano l’idea che i problemi e i conflitti si risolvano con la violenza. Questo modello appreso li accompagna nella crescita e determina il rischio di una condotta violenta sia in età infantile sia in età adolescenziale e adulta. Inoltre, le punizioni corporali rischiano di esacerbare il rapporto genitore-figlio, causando nel bambino una perdita di fiducia nella figura di accudimento.
Questa può essere accompagnata da vissuti di rabbia e rancore che, se non espressi a parole, rischiano di generare comportamenti aggressivi, bugie, vissuti di ansia e paura, perdita di fiducia in sé, disturbi di tipo depressivo, alcolismo o tossicodipendenza.
L’utilizzo di punizioni fisiche è non solo condannabile eticamente e moralmente, ma anche controproducente rispetto agli effetti che si vorrebbero ottenere. Le minacce, gli schiaffi, le grida sono reazioni impulsive a una situazione di stress del genitore, il quale perde di vista gli obiettivi di una relazione che si fonda sull’affetto e sulla sensazione di essere per il figlio punto di riferimento e àncora di protezione. Se il bambino commette uno sbaglio è necessario comprendere insieme a lui la motivazione sottostante e individuare delle possibili soluzioni alternative. Ad esempio, se porta cattivi risultati scolastici è inutile inveirgli contro con frasi del tipo «Ecco, non sai fare nulla! È sempre la stessa storia con te! Quante volte te lo devo ripetere che non si fa?». Sono attacchi che non lasciano possibilità di replica e che al bambino non restituiscono il senso del suo errore. Continuerà a sbagliare, e a questo si aggiungerà la demotivazione proveniente dalla delusione provocata nei genitori.
Chiedere un cambio di condotta al proprio figlio è la giusta modalità affinché arrivi il messaggio educativo, che in caso di punizione fisica finisce per essere accantonato. Il linguaggio e l’atteggiamento che assumiamo devono aiutare il bambino a sviluppare le sue capacità empatiche: mettersi nei panni dell’altro è una competenza che si sviluppa precocemente nei piccoli e che noi adulti dobbiamo sostenere affinché si trasformi da potenzialità a capacità interiorizzata e individuale del bambino. Ad esempio, se nostro figlio picchia un altro bambino perché questo non gli rende un gioco, è solo apparentemente utile dirgli «non si fa», perché nella vita si ritroverà spesso in situazioni di conflitto. Per cui, oltre alla regola, bisogna aiutare il bambino a negoziare la risoluzione del conflitto. Per farlo si deve guardare al valore prezioso dell’educazione affettiva ancor prima di quella comportamentale. Questo significa usare un lessico fatto di emozioni: «Immagino tu sia molto arrabbiato, ma può succedere che un altro bambino stia usando lo stesso gioco che vorresti tu. Secondo te come si sente il bimbo ora che lo hai colpito? Come ti sentiresti tu? Io mi sentirei molto triste».
Dobbiamo dare modo al bambino di fidarsi di noi, di capire che, come adulti responsabili e affidabili, sapremo come guidarlo nei giusti comportamenti, ma senza sostituirci a lui. Frenare il comportamento scorretto o la trasgressione ripetuta di una regola è obbligatorio per ristabilire confini. Farlo senza violenza è possibile quando nella relazione il bambino non si sente passivo ricettore di regole, che rispetta per paura della punizione, bensì si sente parte attiva. Noi adulti dobbiamo aiutarlo a guardare il problema da più prospettive, e quindi individuare anche altre possibilità di risposta. Se il bambino grida, perde il controllo insultando o facendo male ai compagni di classe, dovremmo aiutarlo a parlare della sua rabbia senza condannarla: l’emozione ha sempre un valore e un significato. Non va negata l’emozione, ma va mediato il comportamento. Ad esempio potremmo dire al bambino che la rabbia è un’emozione che abbiamo tutti, che anche a noi adulti capita di arrabbiarci, ma quando succede «mamma conta fino a dieci e cerca di far andare via il nervosismo», oppure «papà dice che è nervoso e cerca di stare un po’ da solo per calmarsi».
Lo sbaglio fa parte della crescita, ma se modalità comportamentali “problematiche” persistono bisogna considerare due elementi, spesso coesistenti:
Regole semplici e chiare sono necessarie per insegnare ai propri figli la capacità di tollerare la frustrazione e di darsi dei limiti. Tuttavia, quando non si raggiunge l’effetto desiderato, bisogna tenere presente che ricorrere alla punizione non determinerà l’inversione di rotta del comportamento del bambino. «Ma perché mio figlio continua a comportarsi così?». Farsi questa domanda è fondamentale per riflettere su quanto quella condotta sia una sfida nei nostri confronti, una richiesta di aiuto o un rifiuto dell’autorità. Trovare nuovi tipi di condivisione con il proprio figlio, cercando canali affettivi di apertura, è la modalità che deve raggiungere in modo trasversale tutti i tipi di pratiche educative. In questo modo risulta più efficace far interiorizzare le regole. Al contempo questo aiuta ad abbandonare le pratiche di punizione fisica, lesive e dannose, oltre che inutili rispetto all’obiettivo educativo. Insomma la prima regola educativa è “autoregolarsi”.