Spesso l’espressione “educare con empatia” genera un fraintendimento, come se un’educazione empatica corrispondesse fondamentalmente al non dare limiti, o i bambini facessero tutto quello che vogliono mentre gli adulti dicono sempre di sì. “Empatia” vuol dire essere in connessione con sé stessi e con gli altri e una relazione empatica funziona nei due sensi: io ascolto e l’altro fa lo stesso con me.
L’aspetto fondamentale della pedagogia basata sull’empatia è che non si basa sul potere: “io vinco e tu perdi” o viceversa. Simili metodi educativi autoritari o permissivi sono stati ampiamente studiati ed è documentato che ostacolino la crescita di una persona autonoma e serena. L’educazione empatica crea quell’ambiente fertile, quel clima accogliente, quello spazio di ascolto in cui tutte le competenze delle persone in relazione possono germogliare, crescere e dare frutto.
«Ma come si fa in pratica?», mi chiedono negli incontri a tema che spesso svolgo a Milano. Ecco quindi alcune riflessioni che possono aiutare a comprendere meglio il concetto del limite e qualche accorgimento utile per imparare a rispettarlo.
I limiti sono elementi naturali del nostro vivere: quando attraversi la strada sai che ti è utile guardare per non essere investito; quando maneggi un libro sai che se strappi le pagine poi ti sarà più difficile ricordarne la storia, e così via. Questi sono gli effetti naturali delle nostre azioni ed è la vita a insegnarci quali conseguenze comporta il nostro agire. L’effetto naturale delle nostre azioni è un cardine importante nella crescita delle persone verso l’autonomia. Maria Montessori ha scritto: «Chi è servito invece di essere aiutato, in un certo modo è leso nella sua indipendenza». Ciò vuol dire che, anche con le migliori intenzioni, servire o iperproteggere i figli per fare al posto loro o per rimediare al più presto alle piccole o grandi avversità che si incontrano nella vita non aiuta la crescita personale né facilita l’assunzione della propria responsabilità. Potrà sembrare un po’ spaventoso per alcuni genitori, ma a volte è più utile, invece che intervenire immediatamente, lasciare che i nostri figli si sporchino e dar loro il tempo di chiederci di aiutarli a pulirsi, lasciare che litighino per trovare delle soluzioni, che facciano male i compiti per poi scoprire che l’errore non è una cosa così terribile, perché semplicemente ci indica la strada su cui bisogna lavorare, che si vestano con i colori non coordinati ma da soli in base al proprio gusto.
Le relazioni non sono qualcosa di statico: sono soggette a una crescita e a uno sviluppo che segue i propri ritmi, e per questa ragione è importante conoscere lo sviluppo psicofisico e intellettivo di un bambino. Alcune madri di bambini intorno ai 14-15 mesi possono essere spaventate dal non riuscire a dare dei limiti. In realtà, se osserviamo un bambino di 15 mesi, notiamo che ancora non è in grado di comprendere cosa sia il limite. Ad esempio, quando si dice a un bambino di quell’età di non toccare il cestino della spazzatura, lui può ripetere a voce alta: «No», poi fare “no” con il ditino e toccare la spazzatura con un bel sorriso. Le interpretazioni di questo comportamento, per quanto possano destare preoccupazione, spesso sono del tutto fuorvianti: «Non mi vuole ascoltare»; «È un bambino cocciuto». Secondo questa lettura, il problema è che c’è qualcosa che non va nel bambino. Oppure: «Non sono capace di farmi rispettare»; «Sto crescendo un bambino viziato». In questo caso il problema è della madre. Commenti di questo genere possono alimentare i dubbi dei genitori: «Ormai il tuo bambino fa quello che vuole, se va avanti così non riuscirai a educarlo». In questo caso il problema sta nelle cattive abitudini, che preannunciano un futuro complicato.
Queste interpretazioni al comportamento del bambino sono prive di un dato importante: il rispetto delle sue tappe evolutive. Quando diciamo: «No! Non mettere le mani nel cestino» a un bambino intorno ai 15 mesi, semplicemente lui non ne comprende il significato verbale. Pensate a quanto sia difficile per lui riuscire a comprendere, prima, l’azione di mettere le mani nel cestino, e poi negarla. È un processo mentale piuttosto complesso per un bambino di quell’età. Anche se può intuire il tono della nostra voce, probabilmente sente più forte la spinta verso la scoperta, la curiosità e il gioco.
Ogni volta che giudichiamo noi stessi come incapaci o il bambino come capriccioso o cocciuto compromettiamo la nostra o altrui autostima, dove «autostima non vuol dire avere una buona opinione di sé in astratto, bensì la capacità di far fronte alle sfide della vita», come afferma la psicoanalista e psicoterapeuta Sue Gerhardt. Quando questo senso d’impotenza o di rabbia ci assale troppo spesso, è tempo di fermarsi e chiedersi se c’è una buona ragione per cui l’altro non fa quello che noi vorremmo. Offrendo nuove letture e corrette informazioni sullo sviluppo evolutivo, la pedagogia può restituire il potere educativo ai genitori consapevoli e attenti nel fare richieste adatte all’età dei bambini. Sono convinta che i nostri figli ci amino e sentano molte più cose di quanto riescano a esprimere, sono più vicini alla natura e al loro sentire emotivo rispetto a quanto lo siano gli adulti. Se troviamo il modo di comunicare con empatia con noi stessi e con i nostri figli possiamo focalizzarci sull’osservare i nostri figli senza giudicarli. Questo creerà quel clima di rispetto per le tappe evolutive dei nostri bambini e ragazzi.
Ancora più importante è riuscire a riconoscere perché una tale cosa o comportamento ci dà gioia o noia. Se il comportamento di nostro figlio ci innervosisce, probabilmente non siamo in grado di soddisfare un nostro bisogno, che potrebbe essere quello di pace. Partendo da questa consapevolezza, ci si apre un altro scenario, nel quale evitiamo di dire a nostro figlio cosa lui è o non è, cosa deve o non deve fare, e scegliamo piuttosto di dire «Io mi sento così». Dico al bambino ciò di cui ho bisogno e cosa concretamente desidero che lui faccia.
I limiti sono numerosi. Alcuni sono molto importanti per la salute del bambino e la sua incolumità: ad esempio prendo la mano di mio figlio piccolo per attraversare la strada o intervengo immediatamente quando avverto un qualche pericolo. In altri casi, invece, ci si può prendere il tempo per pensare a un modo in cui i nostri bisogni e quelli di nostro figlio possano essere entrambi soddisfatti.
Possiamo chiedere a nostro figlio cosa desideriamo che lui faccia, con rispetto e fiducia, e restare aperti anche a un “no” come risposta. Dietro ogni “no” che il figlio o il genitore esprime c’è sempre un “sì”. Rispondiamo di no quando stiamo dicendo sì a qualcos’altro. Ad esempio, dico “no” a mio figlio quando mi chiede di giocare con lui perché sto dicendo “sì” al mio bisogno di pace e al mio sentirmi stanco, ma ciò non esclude che non possa giocare con lui più tardi. Un bambino inizia a giocare invece di lavarsi i denti perché in quel momento sta dicendo sì al suo bisogno di autonomia o di gioco: avere consapevolezza di tutto questo ci aiuta a comprendere dove sono radicati i nostri “no”.
Il “no” non è quasi mai la fine di una conversazione, ma può diventarne l’inizio; prima di etichettare l’altro come sbagliato perché ci sta comunicando il suo “no”, cerchiamo invece di scoprire a cosa sta dicendo “sì”. Così sarà più facile trovare un punto di accordo nel quale i bisogni di entrambi siano soddisfatti. Nel caso del lavaggio dei denti il genitore potrebbe dire al figlio: «Giorgino, vedo che ti piace giocare con lo spazzolino».
Interessarsi a cosa il bambino sta facendo e dare empatia e rispetto per ciò che sente e fa non significa approvare che non si lavi i denti, ma in questo modo mostriamo interesse per la sua prospettiva e il suo modo di vedere le cose.
A questo riguardo lo psicologo M.B. Rosenberg spiega: «Dare empatia non significa approvare o consolidare un comportamento. Anzi più vogliamo influenzare qualcuno a cambiare comportamento, più gli diamo empatia». Il passo successivo sarà esprimerci in una modalità che non leda l’autostima di nessuno. Ad esempio, potremmo dire: «Cosa ne dici, Giorgino, se ora io lavo i miei denti e tu i tuoi?». Un bambino compreso e ascoltato è un bambino aperto alla relazione e all’ascolto del genitore.
Spesso i nostri giudizi sull’altro ci inducono a dare ultimatum – «Se non ti lavi i denti entro cinque minuti non la passerai liscia!» –, oppure a usare il ricatto affettivo – «La mamma non ti vuole più bene» –, la recriminazione e l’accusa – «Sei un bambino indisponente» –, l’insistenza – «Lavati i denti, dai, forza» e il voler aver ragione – «Ti ho detto di farlo punto e basta!». Tutte queste strategie, usate con continuità e perseveranza, danneggiano i rapporti umani, perché sono modi di controllare gli altri. In queste occasioni giudichiamo gli altri in funzione di ciò che è giusto per noi senza ascoltare. Ci chiudiamo all’altro.
I genitori e i figli che desiderano invece alimentare una relazione empatica si affidano a un tipo di connessione in cui riconoscono che l’altro è distinto da sé e sono consapevoli che nessun figlio è venuto al mondo per soddisfare i bisogni di un genitore, così come nessun genitore può umanamente soddisfare tutti i bisogni di un figlio. La cosa più onesta che ognuno di noi può fare è restare in contatto con i bisogni universali di relazione e amore che genitori e figli condividono e avere fiducia nell’esistenza di un modo, una strada, perché entrambi vengano soddisfatti. Quando due esseri umani sono in relazione è come se uno dicesse all’altro: «Ho compreso come ti senti e scelgo di rispondere a ciò che mi chiedi». Il limite è rispettato sulle solide basi della relazione empatica.
Senza relazione non c’è rispetto profondo per il nostro interlocutore, ma siamo spinti a eseguire ciò che l’altro ci chiede non per scelta, ma perché ci sentiamo obbligati dalla paura, dalla vergogna o dalla colpa. Prima di intraprendere una qualsiasi forma di coercizione sui nostri figli chiediamoci allora su quali basi desideriamo che rispettino i limiti: perché lo pretendiamo o perché hanno compreso il significato del limite? Perché provano rispetto per la relazione o perché hanno paura, vergogna o provano senso di colpa? Tutte le volte che pretendo che mio figlio faccia ciò che voglio, implicitamente assegno maggior valore a me rispetto all’altra persona. Cosa ci impedisce di esprimerci in modo positivo, evitando di pretendere? Ad esempio, invece di dire: «Sei proprio disordinato, non riordini mai la tua stanza! Fallo subito!», potremmo dire: «Quando vedo i tuoi giochi sparsi per la stanza, mi sento stanca all’idea di rimettere tutto in ordine. Mi aiuti a riordinare la tua stanza, mettendo tutti i giochi nel cesto?». Quest’ultima frase è più vicina a una richiesta che esprime dei sentimenti e non dei giudizi sull’altra persona.
Se stiamo per esprimere un’accusa o una pretesa, fermiamoci a riflettere e chiediamoci qual è il nostro bisogno. Qual è il desiderio implicito? Possiamo dargli voce? Possiamo occuparcene direttamente noi? Di chi è il problema? Nostro o di nostro figlio? Possiamo lasciare ai nostri figli la possibilità di commettere degli sbagli e di prendersi grandi o piccole responsabilità rispetto a sé stessi in base alla loro età? Possiamo dar loro la possibilità di fare delle esperienze prendendosi la responsabilità di ciò che accade?
Possiamo anche scegliere di essere incerti, di darci del tempo per pensare, di vivere con qualche punto di domanda. Quanto più siamo certi, tanto più siamo chiusi ad altre possibilità.
Possiamo scegliere di stare dalla parte delle possibilità, delle soluzioni creative, di farci più domande. Le domande ci alleggeriscono, ci danno la possibilità di immaginare; di immaginare una relazione dove non per forza devo avere ragione, ma in cui scelgo di ascoltare, di essere aperto all’altro, a più soluzioni nel rispetto dei miei e degli altrui limiti e della reciproca relazione empatica.
pedagogista ed esperta nelle relazioni educative familiari, si occupa di favorire relazioni empatiche. Ha lavorato in progetti educativi rivolti a minori e famiglie in situazione di svantaggio sociale e disagio scolastico, è insegnante di massaggio infantile e consulente alla pari in allattamento. È autrice del libro Nascere e crescere alla luce dell’educazione empatica.