Oggi il dibattito intorno all’uso dell’anestesia epidurale durante il travaglio dovrebbe essere affrontato in modo non ideologico, senza il fanatismo e la polemica che lo hanno accompagnato negli anni passati.
L’assistenza alla nascita è multidisciplinare, e l’ostetrica, figura di riferimento non solo per la donna ma per tutto il team che lavora al fine di garantire la nascita, sostiene la partoriente nelle sue scelte, informandola senza prevaricare né giudicare e avvalendosi delle consulenze specialistiche necessarie. La donna può scegliere di ricorrere all’epidurale, e l’ostetrica può proporre questa modalità di anestesia per facilitare un travaglio troppo impegnativo.
È certamente possibile cercare di facilitare un travaglio ricorrendo a tecniche non invasive e non farmacologiche, ma oggi si può dialogare con eccellenti anestesisti a proposito di tecniche naturali di contenimento del dolore, e le ostetriche hanno imparato a individuare quelle situazioni in cui un’opportuna analgesia può fare la differenza per un buon risultato.
L’accesso a questa tecnologia e alla consulenza degli esperti nel campo (i medici anestesisti) è un diritto delle donne, ed è indispensabile la disponibilità di questa procedura nei punti nascita, poiché oltre a essere un efficace strumento di controllo del dolore, l’analgesia farmacologica è uno strumento ostetrico formidabile.
Il travaglio in cui si applica l’epidurale può essere a basso o ad alto rischio. È bene sapere anche che questa procedura tende ad allungare i tempi del travaglio e determina un cambiamento nella classificazione del rischio ostetrico. Visto che la sorveglianza materna e fetale necessita di un’intensità maggiore, sarà necessario applicare i protocolli previsti per le situazioni ad alto rischio (ad esempio il controllo del battito fetale con registrazione continua).
Gli studi sull’argomento sono molti e i risultati sono controversi. Una revisione del 2018 condotta dall’autorevole Cochrane Library prende in esame 11.000 donne coinvolte in 40 studi, alcuni dei quali mettono a confronto epidurale e uso di oppioidi.
Sebbene in passato l’uso dell’epidurale risultasse associato a un aumento del ricorso al taglio cesareo e al parto operativo rispetto all’uso di oppioidi, questo effetto non si riscontra negli studi condotti a partire dal 2005, in cui era più probabile l’uso di concentrazioni inferiori di anestetico locale e l’adozione di tecniche epidurali più moderne come l’analgesia epidurale controllata dalla paziente (PCEA). [1]
Studi recenti (2019) hanno evidenziato che l’epidurale non aumenta il rischio di lacerazioni perineali severe, ma si associa a eventi quali parto cesareo o strumentale e posizione anomale della testa. [2] Bisogna chiarire che sono dunque gli anestesisti i professionisti che possono entrare nei dettagli tecnici della procedura, come descritto qui di seguito nel box a cura di Sasha Damiani, medico anestesista.
Da parte nostra intendiamo sottolineare che un tema così complesso come quello del nascere, così ricco di implicazioni psicologiche, sociali, emotive, in cui la storia personale di ogni donna si somma e si confronta con la realtà culturale e il momento storico in cui vive, non si può banalmente ridurre al problema del dolore, all’alternativa “epidurale sì o epidurale no”, prescindendo dai tanti altri aspetti importanti nella genesi del dolore stesso: l’ambiente in cui il parto avviene, il personale che assiste, le modalità tecnico-assistenziali, la presenza o meno del partner e di figure di sostegno, la preparazione nel corso della gravidanza.
a cura di Sasha Damiani, medico anestesista
L’anestesia epidurale o peridurale è una tecnica di controllo farmacologico del dolore che risulta efficace in tutti gli stadi del parto ed è ritenuta sicura per la madre e per il bambino.
La procedura consiste nella somministrazione di farmaci (anestetici locali e/o oppiacei) a bassissime concentrazioni a livello dello spazio “epidurale” della colonna vertebrale, ovvero quello più esterno di una delle meningi (dura madre). In tal modo si ottiene un blocco temporaneo, reversibile e selettivo delle fibre nervose che conducono la sensibilità dolorifica, mantenendo invece inalterata la sensibilità tattile e l’attività motoria. In questo aspetto differisce dall’anestesia spinale o subaracnoidea che prevede l’abolizione completa dell’attività nervosa (sensitiva e motoria) e viene utilizzata per consentire interventi chirurgici, come ad esempio il taglio cesareo.
Nell’anestesia spinale i farmaci vengono somministrati nello spazio più interno delle meningi, detto appunto “spazio subaracnoideo”.
L’anestesia epidurale viene generalmente eseguita quando il travaglio è ben avviato, con contrazioni valide e regolari. La partoriente viene posizionata seduta o sdraiata su un fianco e collegata a un monitor per il controllo dei parametri vitali. Dopo aver disinfettato la regione lombare e praticato un’anestesia locale sulla cute, il medico anestesista inserisce attraverso un ago un tubicino morbido e molto sottile (catetere peridurale) a livello dello spazio epidurale. Dopo aver rimosso l’ago, attraverso il catetere verranno somministrati farmaci analgesici e la loro somministrazione potrà essere ripetuta più volte durante tutta la durata del travaglio e del parto.
L’obiettivo dell’analgesia peridurale non è quello di abolire completamente il dolore, ma di garantire un buon controllo dello stesso, permettendo alla partoriente di avvertire le contrazioni uterine, potersi muovere durante il travaglio e spingere durante la fase espulsiva. Questa procedura è perfettamente compatibile con l’allattamento al seno.
«L’epidurale fa male?». La procedura di per sè è resa praticamente indolore dall’anestesia locale cutanea che viene praticata prima di inserire l’ago.
Esistono delle controindicazioni che verranno valutate e discusse con il medico anestesista caso per caso, che a grandi linee sono:
Per un eventuale ricorso all’epidurale, quali esami bisogna fare? Al fine di stabilire l’idoneità di una partoriente a questa procedura, è necessaria una visita con il medico anestesista, durante la quale verrà indagato lo stato di salute globale della donna e verranno escluse le principali controindicazioni, valutando in questo caso la possibilità di strategie analgesiche alternative.
La visita anestesiologica viene generalmente eseguita nel terzo trimestre, dalla 35esima alla 37esima settimana, e necessita della documentazione sanitaria della gravidanza, di eventuale documentazione pregressa (in caso di patologie note) e degli esami ematochimici del terzo trimestre con il conteggio delle piastrine, oltre agli indici di coagulazione (PT e aPTT) che invece non sono generalmente previsti tra i controlli routinari della gravidanza.
Il travaglio e il parto non sono che un brevissimo momento in un percorso molto più lungo, che inizia con il desiderio di fare un figlio, prosegue con la gravidanza, il parto e il puerperio e termina nel momento in cui i neogenitori si sentono autonomi nella capacità di crescere ed educare il proprio figlio. Non è possibile tutelare il parto separandolo da tutto il resto, ed è a questo percorso – nella sua interezza – che è necessario dare un supporto adeguato, garantendo servizi di accompagnamento e favorendo un’assistenza personalizzata, affinché possa trasformarsi in un’occasione di crescita per la coppia, che avrà la possibilità di essere più forte e più capace nel gestire in prima persona la nascita di un bambino.
Fare figli attiene soprattutto alla sfera culturale e solo in parte a quella medica. La medicina, indispensabile per evitare i rischi della gravidanza e del parto, ha avuto senza dubbio il merito di abbassare (fino quasi a zero) la mortalità e la morbilità per la madre e il bambino, ma con un effetto collaterale: una sempre più invadente tecnicizzazione della nascita.
Oggi gli studi e le evidenze scientifiche ci avvertono che siamo andati molto oltre, raggiungendo un livello di tecnologia che è non solo inutile, ma anche dannoso. Basta pensare all’aumento spropositato di tagli cesarei e dei parti operativi, col conseguente incremento dell’insoddisfazione delle donne, delle depressioni post-parto, delle difficoltà relazionali coi neonati, dei problemi nell’allattamento.
Sappiamo che la tecnicizzazione delle modalità di assistenza al parto ha contribuito non poco ad accentuare il dolore, e prima di introdurre altra tecnologia è indispensabile rivedere le pratiche limitando allo stretto necessario soprattutto quelle collegate all’aumento del dolore.
Molte di queste pratiche vengono infatti eseguita di routine e imposte alla donna, ma della loro utilità non esiste alcuna evidenza scientifica: le troppe, inutili, continue visite ostetriche; i tracciati cardiotocografici tenuti a oltranza; il divieto di alzarsi dal letto; la posizione sdraiata imposta; l’applicazione del catetere per lo svuotamento della vescica; l’introduzione di liquidi per via endovenosa eccetera.
Tranne alcuni casi particolari, se non si presentano rischi, in travaglio le visite vaginali devono seguire la cadenza prevista dal protocollo, e le donne possono muoversi liberamente, andare in bagno, possono bere e alimentarsi.
Se si vuole difendere la possibilità della donna di scegliere, bisogna aver chiaro in mente che non si tratta di scegliere fra dolore sì e dolore no, ma tra rimanere protagonisti di un evento che comporta la presenza di un dolore che può essere gestibile e sostenibile, oppure restare passivi e subire un dolore indotto, reso per questo insostenibile e devastante.
Ci sono metodi naturali molto discussi, alcuni con poche evidenze in letteratura (come l’aromaterapia e l’ipnosi), o altri più difficili da reperire perché legati a competenze specifiche che non tutto il personale possiede (ad esempio l’agopuntura). Di sicuro procedure molto semplici come un bagno in acqua calda (o almeno una doccia prolungata) possono facilitare molto le cose. Il nostro consiglio è di scegliere una sala parto che abbia acqua a disposizione. [3]
È proprio l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che ci invita a potenziare e diffondere le modalità di assistenza alla gravidanza e al parto basate sul sostegno e l’accompagnamento, limitando il numero di operatori coinvolti e puntando invece sulla continuità assistenziale in tutte le situazioni fisiologiche, poiché è dimostrato che in questo modo si garantisce la migliore tutela della salute.
La risposta migliore è: sì, a volte. L’epidurale infatti può essere una buona soluzione nei casi difficili, così come l’ossitocina, la ventosa ostetrica, il cesareo: tutti ottimi strumenti a disposizione dell’ostetricia per quelle situazioni che non riescono a evolvere naturalmente.
Epidurale sì, dunque, ma non per forza per tutti. Per chi dunque?
nata a Torino, dopo aver lavorato come restauratrice di dipinti, si laurea in Ostetricia nel 1999. Da allora lavora a Firenze, dove promuove una gestione meno invasiva e medicalizzata del parto. Partecipa all’apertura del primo centro nascita italiano, pubblico e a completa gestione ostetrica: la Margherita, dove lavora per sette anni.
ostetrica, ha avuto una lunga esperienza lavorativa nel servizio pubblico, sia sul campo sia come ostetrica dirigente. In questa veste ha aperto il Centro nascita “Margherita”, struttura dedicata al parto naturale dell’Azienda ospedaliero-universitaria Careggi di Firenze, e lo ha diretto dal 2007 al 2014. È autrice di numerose pubblicazioni su riviste di settore, e del libro “Partorirai con amore”. È in pensione dal 2017.