Il test di gravidanza è positivo, e la mamma già si chiede: «Sarà sano?». Ogni coppia prova la paura e l’incertezza dell’ignoto di fronte a una gravidanza che sta iniziando.
In un tempo non lontano in cui era impossibile penetrare questo segreto, si faceva ricorso alla saggezza popolare, agli indovini, alla magia, per avere qualche risposta rassicurante. Oggi, grazie agli esami svolti in gravidanza, è possibile monitorare l’intero decorso della gestazione, in modo da individuare eventuali alterazioni innocue e difetti congeniti. Mediante gli esami è inoltre possibile monitorare lo stato di salute del feto ed effettuare controlli sull’evoluzione della gravidanza.
In questo articolo approfondiremo dunque quali sono gli esami da fare in gravidanza, quando si devono svolgere e quali informazioni offriranno ai futuri genitori sul nascituro.
Tra gli esami da fare in gravidanza abbiamo oggi a disposizione tecniche di screening (per identificare la popolazione a rischio tramite strumenti statistici) e tecniche diagnostiche basate su accertamenti eseguiti su materiale fetale. È corretto, in assenza di particolari situazioni di rischio, orientare le coppie verso tecniche di screening piuttosto che direttamente verso indagini diagnostiche rischiose per la gravidanza.
Le tecniche di screening sono innocue ma non in grado di permettere una diagnosi certa al 100%, pur andandovi molto vicino; le tecniche diagnostiche consentono la rilevazione certa di alcune patologie ma comportano un rischio di aborto, e si definiscono “invasive” (si effettuano introducendo strumenti all’interno del corpo materno).
Le tecniche di screening riducono drasticamente il ricorso alle indagini diagnostiche invasive, abbattendo il numero degli aborti collegati alle tecniche di prelievo dei tessuti fetali. Vediamole nel dettaglio quali sono e quali informazioni offrono.
È lo screening deputato al calcolo del rischio individuale delle malattie cromosomiche o di altri difetti congeniti (ad esempio cardiopatie e anomalie del DNA). È un test su base statistica, molto affidabile perché il suo risultato è attendibile sino al 96%.
Il test combinato o Bi-test si effettua nel primo trimestre della gravidanza: si basa su anamnesi (raccolta di informazioni sulla salute della coppia e delle rispettive famiglie), un prelievo del sangue (“duo test”) e un’ecografia che viene effettuata tra le 11+6 e le 13+6 settimane di gravidanza (è possibile eseguire il tritest se invece la gravidanza è in uno stadio più avanzato). Nello specifico l’ecografia valuta la misurazione di una zona di raccolta di liquido a livello della nuca fetale, detta “zona di translucenza nucale”. Tutti i feti hanno normalmente questa zona di raccolta di liquido, che se è aumentata può rappresentare un fattore di rischio.
Grazie a un accurato programma informatico, mettendo in relazione dati ecografici, biochimici e anamnestici, il test è in grado di rivelare se il rischio di queste patologie è alto (test di screening positivo). Lo spartiacque tra basso e alto rischio (detto “cut-off”), viene deciso localmente, e generalmente è definito dalla probabilità di avere un bambino affetto dalla malattia su 250 (1:250). C’è da dire che nonostante il test sia molto sicuro, il concetto di “alto rischio” rimane personalissimo e dipende dalla storia di ciascuna coppia.
Sulla base del risultato statistico si può decidere se effettuare ulteriori accertamenti di screening (DNA fetale) o invece passare a metodiche invasive (villocentesi e amniocentesi) per la diagnosi certa della malattia cromosomica.
Con lo stesso procedimento utilizzato per il test combinato, aggiungendo l’analisi di altri fattori di rischio rilevabili dal sangue materno, dall’ecografia e dall’anamnesi, possiamo ottenere la valutazione del rischio anche per alcune patologie ostetriche, come il ritardo di crescita fetale e l’ipertensione gestazionale (per approfondire puoi leggere questo articolo). In questo caso si possono anticipare le terapie necessarie, evitando o limitando i danni di queste patologie della gravidanza.
Tra gli esami che si possono svolgere in gravidanza esiste anche un test di screening sulle anomalie dei cromosomi più frequenti, che il Sistema Sanitario Nazionale non garantisce, e che quindi è a totale carico del cittadino. Si basa sulla ricerca del DNA fetale circolante nel sangue materno, “cell free DNA” (cfDNA).
Si stima che il 2-6% del DNA nel sangue materno abbia origine fetale. Il DNA fetale è frammentato e si fa strada nel sangue materno (tramite spargimento delle microparticelle placentari nella circolazione sanguigna). La sua quantità aumenta con il progredire della gravidanza, per poi diminuire rapidamente dopo la nascita del bambino, arrivando a non essere più rilevabile nel sangue materno circa due ore dopo la nascita. Il DNA fetale libero circolante è significativamente più piccolo del DNA materno: molti metodi usati per estrarre il DNA fetale dal plasma materno utilizzano le sue dimensioni per distinguerlo da quello della madre.
L’attendibilità di questo test di screening, limitatamente ad alcune delle anomalie cromosomiche più frequenti, è molto elevata, sfiorando il 100% per la sindrome di Down. Non è un test diagnostico ma statistico, e pertanto ogni risultato che indichi un alto rischio di patologia deve essere confermato con una tecnica invasiva tradizionale (villocentesi o amniocentesi).
Le Linee Guida del Ministero della Salute indicano che il test deve essere preceduto da un’ecografia accurata (non è indicato eseguirlo prima) e dalla consulenza pre-test, che ha il compito di illustrare il significato del test e tutte le opzioni alternative disponibili per il monitoraggio della gravidanza.
Non sostituisce, ma si affianca al test combinato perché non è in grado di valutare il corretto sviluppo dell’anatomia fetale. A questo proposito, nel caso in cui i dati ecografici suggeriscano un aumento del rischio di patologia cromosomica nel feto, deve essere valutata l’opportunità di eseguire direttamente una diagnosi prenatale invasiva per lo studio del cariotipo fetale, cioè l’insieme dei cromosomi del feto (secondo le Linee Guida Ministero della Salute).
La villocentesi e l’amniocentesi sono esami che consentono l’estrazione del materiale fetale da studiare. Sono tecniche di prelievo invasivo che comportano una puntura dell’addome materno per prelevare (attraverso la parete uterina) il materiale da analizzare. Ci consentono di valutare sia i cromosomi sia il DNA fetale nei casi di particolare rischio.
Le differenze tra amniocentesi e villocentesi riguardano il momento della gravidanza in cui vengono eseguite e i tempi di risposta. La villocentesi si effettua fra la decima e la tredicesima settimana di gravidanza: attraverso questo esame è possibile avere in pochi giorni una prima risposta sulle anomalie più frequenti dei cromosomi e una lettura del cariotipo in una quindicina di giorni.
L’amniocentesi si effettua dalla sedicesima settimana e non permette il primo esame diretto (risposta rapida). È necessario aspettare la riproduzione in laboratorio delle cellule fetali presenti nel liquido amniotico prelevato (esame colturale) e sono necessari 15-18 giorni per avere una prima risposta.
Tra questi due esami non c’è differenza di tipo diagnostico, poiché entrambi indagano le possibili anomalie cromosomiche nel feto. Il rischio abortivo di queste tecniche è sostanzialmente sovrapponibile, circa 1 su 100.
L’esame cromosomico generico eseguito sui villi coriali (placenta) o sugli amniociti (cellule fetali disperse nel liquido amniotico) permette di individuare le anomalie del numero e della struttura dei cromosomi ma non dà informazioni sul DNA, ovvero sui singoli geni contenuti all’interno dei cromosomi. Di conseguenza non dà informazioni su eventuali malattie ereditarie trasmesse dovute a mutazioni del DNA.
Visto il numero elevato di difetti possibili, anche se rarissimi, è necessario restringere il campo della ricerca delle anomalie del DNA a quelle situazioni in cui ci sia un sospetto o la presenza di fattori di rischio derivati dalla storia familiare dei futuri genitori (talassemia, fibrosi cistica, distrofia muscolare).
È fondamentale un’accurata anamnesi che con poche, facili domande permette di distinguere le situazioni a rischio da quelle normali. Se la malattia non è conosciuta, la sua ricerca in ambito prenatale è difficile perché la lettura del DNA di una persona richiede tempi molto lunghi, e comunque si tratta di una lettura parziale dal momento che non siamo ancora in grado di decodificare tutto il materiale genetico.
Di fronte a un’anamnesi positiva per rischio di malattia ereditaria, sarà il medico genetista ad approfondire la ricerca per orientare successivamente i test di laboratorio verso il difetto specifico. In questa situazione i metodi di indagine sono esclusivamente invasivi (villocentesi e amniocentesi).
I difetti congeniti comprendono un insieme di problemi che possono avere origini diverse e che si verificano durante la gravidanza. Comprendono:
Si riscontrano solo nel 5% delle gravidanze e possono essere più o meno gravi. È importante sapere che non tutti i difetti congeniti sono diagnosticabili e che non esiste un unico esame in grado di dirci se il bambino sarà sano o meno. Ma andiamo con ordine.
Il nostro patrimonio genetico è contenuto nel DNA, che a sua volta costituisce i 46 cromosomi (23 paterni e 23 materni) situati nel nucleo delle cellule del nostro corpo. I cromosomi sono strutture piccolissime ma contengono infinite informazioni che determinano il nostro aspetto fisico (come il colore degli occhi e quello dei capelli), ma anche il nostro stato di salute.
Possono riguardare errori numerici o della struttura del cromosoma stesso e si realizzano, nella maggior parte dei casi, al concepimento, senza che sia possibile una prevenzione.
Un esempio di anomalia cromosomica, quella più conosciuta, è la sindrome di Down o Trisomia 21. I soggetti affetti da questa sindrome hanno 47 cromosomi anziché 46. È l’anomalia cromosomica più frequente, seguita dalla Trisomia 18 e dalla Trisomia 13.
Fino a pochi anni fa l’età materna avanzata era l’unico fattore di rischio che spingeva a sottoporsi agli esami diagnostici invasivi (l’amniocentesi e la villocentesi). L’età però è un fattore di rischio generico e di affidabilità limitata rispetto al rischio individuale.
Le anomalie del DNA sono alterazioni di piccoli frammenti del DNA, i geni, che si trovano all’interno di un cromosoma: questi difetti non riguardano i cromosomi, quindi, ma le informazioni contenute nei filamenti di DNA che stanno al loro interno. La caratteristica di tali anomalie è di essere perlopiù ereditarie, ovvero di trasmettersi nei nuclei familiari (ad esempio, fibrosi cistica e talassemia). Talvolta un’anomalia del DNA compare per la prima volta nella famiglia, e da quel momento può essere trasmessa alla prole.
Dato che ancora oggi non si conoscono tutte le malattie legate al DNA, molecola di “recente” scoperta che ancora ci nasconde molto, è importante identificare le coppie a rischio di malattia ereditaria.
Le malformazioni sono un’anomala strutturazione di organi o apparati del bambino e non sempre sono legate ad anomalie del patrimonio genetico; solitamente si presentano come fattore isolato e non dipendono dall’età della madre o del padre.
Non sempre si conosce la causa della loro comparsa, sono stati però individuati alcuni fattori di rischio:
Un tempo si pensava che la placenta fosse una barriera assoluta e che quindi fosse in grado di proteggere sempre il bambino da agenti patogeni esterni, ma oggi sappiamo che non è affatto così.
Per fortuna esistono fattori protettivi. Ne è un esempio l’acido folico: assunto già prima del concepimento – come indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – riduce sensibilmente il rischio di malformazioni del sistema nervoso del bambino. È anche noto ormai come la vaccinazione di massa contro la rosolia abbia abbattuto il rischio malformativo che questa infezione, se contratta in gravidanza, comporta.
Oggi sappiamo che non tutti i farmaci possono essere assunti in gravidanza, e il problema è così sentito fra la popolazione che in molte città sono stati creati punti informativi a cura delle aziende sanitarie, dove è possibile chiedere a medici o farmacologi esperti chiarimenti rispetto ai farmaci assunti o da assumere.
Anche alcuni lavori possono esporre al rischio di malformazioni: le donne che lavorano in pelletterie, stampifici, colorifici maneggiano normalmente sostanze le cui esalazioni possono interferire negativamente con la gravidanza. In Italia la legge sulla maternità (Legge n. 53 dell’8 marzo 2000) tutela la gravidanza dando il diritto alla donna di essere ricollocata a svolgere un’altra mansione nell’azienda in cui lavora.
Le malformazioni si diagnosticano con l’ecografia: è una tecnica non invasiva, cioè non pericolosa per la mamma o il bambino, che permette la diagnosi di circa il 90% delle malformazioni fetali, grazie alla visualizzazione di diversi organi e tessuti molli del corpo umano. In Italia sono raccomandate dalle Linee Guida tre ecografie durante la gravidanza, una per trimestre. [1] Il sovrappeso, la posizione retroflessa uterina, l’uso di oli o creme sulla pancia nei giorni precedenti l’esame, l’utero fibromatoso, la posizione fetale, l’intestino pieno di feci o di aria sono tutte condizioni che possono rendere più difficile lo svolgimento dell’esame, e meno precisa la visione al medico che lo effettua.
Le coppie sono chiamate a prendere importanti decisioni sui percorsi da affrontare per accertare, molto precocemente, l’eventuale presenza di queste anomalie. Ciò accade quando i genitori stanno ancora cercando di gestire il turbine emotivo dell’inizio della gravidanza, con tutte le contraddizioni e le ambivalenze che sono presenti anche nelle gravidanze più desiderate e cercate. L’indagine neonatale si esegue in una fase precoce per avere informazioni su gravi problematiche relative alla salute del bambino, così da dare la possibilità alle coppie di decidere se proseguire la gravidanza di fronte a una diagnosi infausta (la grande maggioranza sceglie così). Ci sono coppie per le quali questa opzione non è praticabile, ma desiderano comunque avere l’informazione. Ci sono poi coppie che non vogliono sapere, che preferiscono accettare il rischio.
La scelta degli esami a cui sottoporsi in gravidanza sono molto personali, legate a fattori culturali, sociali, familiari. Per questo motivo è necessario fornire una corretta informazione sulle possibili opzioni, oggettiva, scientifica, rispettosa e non giudicante, che permetterà alla coppia una scelta libera e consapevole. [2]
Ostetrica, si è occupata a lungo di cooperazione internazionale e di progetti sostegno alle salute delle donne migranti. Dal 2007 al 2009 fa parte del pool di ostetriche che danno vita al Centro nascita “Margherita” dell’Azienda Universitaria di Firenze che si occupa del travaglio e del parto fisiologici a esclusiva conduzione ostetrica. Dal 2014 lavora nell’Ospedale Santa Maria Annunziata nel reparto di Ostetricia e in sala parto.