Compito principale dei genitori è quello di favorire che i figli si preparino a vivere bene la loro propria vita, realizzando sé stessi nei migliori modi possibili. Tutti i loro interventi devono tener conto di questo scopo principale. Ora, per vivere bene la propria vita, è necessario (fra moltissime altre cose) acquisire e affinare le capacità di riconoscere le proprie esperienze. A noi adulti può sembrare una cosa automatica. Spesso, quindi, non ci accorgiamo (né ci ricordiamo) di quanto siano capacità che vengono progressivamente acquisite e perfezionate. Saper riconoscere le proprie esperienze sostanzialmente vuol dire saper riconoscere le emozioni che le nostre esperienze attivano in noi.
Come fa un bambino a riconoscere le proprie emozioni (paura, angoscia, tristezza, rabbia, gelosia, tenerezza…)? Come tutti noi, egli le vive direttamente. Ne ha esperienza. Ma, affinché la sua esperienza sia da lui riconosciuta come reale, rilevante, sensata e quindi come accettabile e, soprattutto, pensabile, il bambino ha assoluto bisogno di percepire che c’è qualcuno fuori di lui (meglio se è una persona per lui importante, come mamma o papà) che risuona con quella sua emozione, e che quindi comprende e condivide la sua esperienza. Si tratta di una specie di validazione dell’emozione e dell’esperienza. È come se il bambino potesse dire, fra sé e sé: “L’esperienza che mi sta capitando di vivere è stata vissuta anche da altri, che ora la riconoscono. Posso rassicurarmi: io sono un essere umano; questa mia è un’esperienza umana. Non sono un alieno”.
Se questa risonanza sistematicamente non c’è o è carente, il bambino sperimenterà sì direttamente (come è ovvio) tutte le proprie emozioni, ma tenderà a non riconoscerle o a escluderle dalla propria consapevolezza, o a cercar di “combatterle”, come fossero realtà psichiche incompatibili e quindi da abbandonare, da svalutare, da contrastare, da annullare, da trattare con ostilità, o, comunque, da far come se non esistessero. Per questa via, progressivamente, potrà arrivare a strutturare delle “aree cieche del Sé”, corrispondenti alle esperienze sistematicamente misconosciute. La risonanza emotiva dei caregivers (di coloro, cioè, che si occupano del bambino) può avvenire direttamente, con l’esperienza che il bambino va facendo mentre la sta facendo; oppure indirettamente, attraverso l’immedesimazione che bambino e adulto possono fare nell’esperienza di qualcun altro. È questa la cosa più importante che accade quando raccontiamo o leggiamo delle storie ai bambini: noi adulti, insieme con loro, risuoniamo con le emozioni dei personaggi del racconto che andiamo dipanando.
Se noi ci limitassimo a dare un nome all’emozione che il bambino sta sperimentando, faremmo certamente qualche cosa di buono, ma sarebbe ben poca cosa. Per un bambino, infatti, soprattutto se piccolo, sentirsi dire, per esempio: “Sei geloso” o “invidioso” o “triste” è davvero equivalente a sentir parlare di mucca, carriola, margherita, triangolo, chilogrammo o temporale. Per lui, gelosia, invidia e tristezza sono nomi che indicano qualche cosa, cui non necessariamente corrisponde una qualche sua propria esperienza. Prende tutto per buono, come nomi e descrizioni del mondo reale, indipendentemente da quello che lui vive. E vi connetterà, poi, la propria esperienza in modi a volte realmente bizzarri.
Quando, invece, descriviamo un’esperienza attraverso un racconto, il bambino, per quanto piccolo sia, coglie il nocciolo emotivo dell’esperienza stessa: la riconosce non solo attraverso un più o meno acritico processo di nominazione, ma attraverso una precisa risonanza emotiva empatica, quasi come se quell’esperienza la stesse facendo lui. Attraverso un sottile gioco di finzione e verità, sa che quell’esperienza non la sta facendo, ma, contemporaneamente, viene a sapere con precisione di che esperienza si tratta, perché è quasi come se l’avesse vissuta direttamente, attraverso l’immedesimazione.
Fonagy, psicoanalista inglese contemporaneo, chiama funzione riflessiva la capacità che abbiamo di cogliere gli stati mentali (e di comprendere le esperienze emotive) nostri e delle persone con cui entriamo in contatto. Si tratta di una capacità naturale, di cui tutti siamo dotati fin dalla nascita, che però può essere affinata oppure inibita dalle esperienze di risonanza o di “sordità emotiva” in cui ci siamo trovati partecipi.
Capacità preziosa per la qualità della vita, nostra e di chi vive con noi, in quanto è il centro della capacità di amare e di conoscere le persone. I racconti e le fiabe possono così essere fonte di grande arricchimento, non solo di esperienze, ma anche e soprattutto di attivazione e di allenamento di queste capacità.
Attenzione, però. Noi adulti possiamo leggere o raccontare storie con tre principali differenti fini. L’uno, buono e arricchente, è quello di far entrare i bambini in contatto con la verità delle esperienze fondamentali della vita (nascita, vita, morte, amore, gelosia, invidia, bisogno di attaccamento, bisogno di andarsene per esplorare il mondo, speranza, frustrazione, rabbia, rivalità, gratitudine, tenerezza, sorpresa, piacere della scoperta, piacere di nuove conoscenze, diffidenza, dolore per la perdita di cose e persone, piacere del ritrovamento, fiducia, felicità, paura, angoscia impotente, soddisfazione, successo, sconfitta, noia…).
Il secondo fine è far fare delle cose, per esempio: ti racconto una storia per distrarti, così mangi tutto quello che voglio io. Il terzo, infine, è quello di confondere il bambino con falsità, per esempio: raccontandogli la storia della cicogna che porta i neonati. Raccontare per esprimere e arricchire la conoscenza emotiva di sé, degli altri e della vita, da un lato; raccontare per confondere e per far fare qualche cosa che altrimenti non farebbe, dall’altro lato. In posizione intermedia si colloca il raccontare per trasmettere valori (onestà, sincerità, generosità, responsabilità, coraggio, altruismo, laboriosità, astuzia, perseveranza, solidarietà, avventura…), e per sanzionare disvalori (ingordigia, invidia, ira, sprovvedutezza, inganno, superbia, viltà, doppiezza…). A voi, ora, ricordare almeno una fiaba per ogni emozione, valore o disvalore che vi ho citato come esempio.
Per dar valore alle proprie esperienze, il bambino ha bisogno di riconoscere le proprie emozioni. Questo può avvenire o percependo che un adulto risuona con quelle emozioni; o immaginando, con un adulto partecipe, che qualcun altro viva esperienze ed emozioni analoghe. Per questo, storie racconti e fiabe sono importanti nello sviluppo psichico e relazionale del bambino. Se volete saperne di più vi consigliamo la lettura di Raccontare storie aiuta i bambini di Margot Sunderland.