Il celebre storico greco Diogene Laerzio, nell’VIII libro della sua opera Vite dei filosofi, racconta che Pitagora e i suoi discepoli manifestavano una tale avversione per le fave da non poterle neanche toccare. Si narra inoltre che Pitagora stesso, in fuga dagli scherani di Cilone di Crotone, preferì farsi raggiungere e uccidere piuttosto che mettersi in salvo in un campo di fave.
Non potremo mai sapere se Pitagora fosse davvero affetto da quello che oggi è conosciuto come favismo, ma sicuramente il divieto di toccare le fave ci riporta un po’ ai nostri giorni quando, in prossimità di maggio, nei punti vendita di verdura e ortaggi si legge spesso il cartello «in questo esercizio si vendono fave», proprio per mettere in guardia le persone fabiche.
Il favismo non è un’allergia, ma una forma di anemia ereditaria caratterizzata dalla carenza di un enzima detto glucosio-6-fosfato deidrogenasi (G6PD), espresso soprattutto nei globuli rossi. L’anemia determinata dalla carenza di tale enzima è detta emolitica in quanto i globuli rossi carenti vengono danneggiati e distrutti (lisati) se esposti a infezioni o a diversi agenti come sostanze chimiche, farmaci o, appunto, alle fave. Il G6PD ha infatti un ruolo chiave nel preservare il globulo rosso da un invecchiamento precoce, come quello causato da uno stress ossidativo. Se è carente, tali cellule saranno maggiormente esposte agli stress di questo tipo e andranno incontro a una distruzione (lisi) prematura.
Il deficit di G6PD, di cui il favismo è la principale manifestazione, è molto più frequente di quanto si pensi: rappresenta infatti la forma più comune di deficit enzimatico nella specie umana ed è particolarmente diffuso nell’area del bacino del Mediterraneo, ma anche in Medio Oriente e Asia meridionale. In Italia l’incidenza di deficit di G6PD è dello 0.4% nell’area continentale, mentre nelle isole risulta dell’1% in Sicilia e del 14.3% in Sardegna, con un picco del 25.8% nella provincia di Cagliari.
È da notare che l’area di diffusione di tale deficit coincide con quelle zone in cui la malaria ha – o ha avuto – una forte incidenza. Sembrerebbe infatti che gli individui affetti da tale mancanza fossero più “protetti” dalla malaria in quanto l’agente eziologico, il Plasmodium falciparum, non riusciva a completare il ciclo vitale nei globuli rossi danneggiati prematuramente. La diffusione del deficit di G6PD è quindi il frutto di una selezione positiva, che lo ha portato fino ai nostri giorni.
Negli ultimi anni sono state scoperte diverse centinaia di mutazioni del gene della G6PD, ma non tutte portano a una carenza dell’enzima tale da provocare l’anemia. Questo significa che la maggior parte degli individui portatori del gene alterato sono asintomatici.
Un’altra particolarità di tale patologia riguarda la modalità di trasmissione genetica, che coinvolge l’alterazione del gene G6PD presente sul cromosoma sessuale X. Le donne, avendo due cromosomi sessuali X, saranno quasi sempre portatrici ma manifesteranno raramente la patologia. I maschi, invece, se ereditano la X alterata dalla madre svilupperanno certamente la malattia, poiché l’altro cromosoma sessuale è una Y.
Dal punto di vista sintomatologico, la gravità della distruzione dei globuli rossi (emolisi) è variabile, ma in genere si parla di “crisi emolitica” per sottolineare un esordio brusco e rapido, che in genere avviene da poche ore a 1-3 giorni dopo l’ingestione delle fave. Il soggetto colpito impallidirà velocemente e le sclere assumeranno una colorazione giallastra (definita subittero), mentre le urine saranno più scure. Questi segni sono collegati alla distruzione dei globuli rossi, con conseguente riduzione dell’emoglobina e aumento dei prodotti derivati dalla sua degradazione (ovvero la bilirubina).
Caratteristica dei fabici è di essere asintomatici fino a quando non entrano in contatto con le fave o con altri agenti ossidanti che scatenano la crisi emolitica. Risalire alla diagnosi è piuttosto semplice se si considera il forte nesso tra l’assunzione dell’alimento o farmaco “incriminato”, la crisi successiva e le caratteristiche dell’emolisi.
Anche la morfologia dei globuli rossi, valutata su un vetrino da un ematologo esperto, può indirizzare la diagnosi, poiché l’emoglobina danneggiata forma i cosiddetti corpi di Heinz, ben riconoscibili al microscopio. La diagnosi di certezza si ottiene dal dosaggio dell’enzima, che risulterà assente, oppure dallo studio molecolare, che permette di individuare la mutazione sul gene. Entrambe le indagini devono essere eseguite in centri con laboratori specializzati.
Il trattamento della fase acuta si basa su una serie di misure di supporto, compresa l’esecuzione di trasfusioni, che permettono di risolvere la crisi. Attualmente non si dispone di una vera e propria cura per tale patologia, per cui è importante soprattutto la prevenzione: i soggetti consapevoli di essere carenti di G6PD devono evitare di entrare in contatto con farmaci e sostanze che possono scatenare la crisi emolitica. L’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con l’Agenzia Italiana del Farmaco, ha redatto un documento specifico con l’elenco completo dei farmaci da cui astenersi.
Per poter avviare la prevenzione il prima possibile, è utile lo screening neonatale, e in alcune regioni italiane è stata attivata la ricerca del deficit di G6PD come parte dello screening metabolico allargato.
Per concludere, bisogna aggiungere che, oltre al favismo, una manifestazione precoce e frequente del deficit di G6PD è l’ittero del neonato. In questi casi, l’aumento della bilirubina dovuto alla disintegrazione dell’emoglobina potrebbe essere erroneamente interpretato come fisiologico, legato all’immaturità della funzione delle cellule del fegato (il cosiddetto ittero neonatale). Il mancato riconoscimento di una carenza di G6PD potrebbe esporre il neonato a gravi conseguenze cerebrali, come quelle causate dal kernittero. Da qui l’importanza di eseguire uno screening alla nascita, soprattutto nelle zone in cui la prevalenza del deficit è elevata.