In questi giorni il nostro paese è alle prese con l’epidemia di influenza stagionale. I dati raccolti dall’Istituto Superiore di Sanità stimano che dall’inizio dell’epidemia alla prima settimana di gennaio 3 milioni di italiani siano stati colpiti da sindromi simil-influenzali (Influenza-Like Illness, ILI) e che verosimilmente il numero di ammalati sarà il più elevato degli ultimi dieci anni (dati tratti dal Rapporto Epidemiologico InfluNet, aggiornato al 10 gennaio 2018 e reperibile qui).
La previsione sull’andamento dell’epidemia è basata su quanto avvenuto pochi mesi fa nell’emisfero sud, come ha argomentato un gruppo di ricercatori statunitensi e australiani sulla rivista medica «New England Journal of Medicine» (da qui in avanti citata come «NEJM») dello scorso 4 gennaio (chi vuole approfondire, può leggere l’articolo originale qui).
Osservando quello che accade nel corso dell’inverno nell’emisfero australe è infatti possibile prevedere come si svilupperà l’epidemia influenzale nel Nord del mondo. In Australia il numero di casi ha superato ampiamente quelli riportati nel corso del 2009 durante la pandemia da virus A/H1N1, e lo stesso sta per accadere in Italia.
Parte della responsabilità di questa epidemia particolarmente aggressiva, scrivono i ricercatori sul «NEJM», è da attribuire alla scarsa efficacia del vaccino. Nel caso dell’epidemia in Australia, il virus maggiormente circolante è stato quello A/h2N2 e una stima preliminare dell’efficacia del vaccino impiegato per questa stagione ha dato risultati ben poco incoraggianti: la capacità di proteggere dall’infezione contro il virus A/h2N2 sarebbe infatti solo del 10%.
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), le epidemie di influenza stagionale causano ogni anno tra 3 e 5 milioni di casi gravi di malattia e tra 300 e 500.000 morti e la vaccinazione rappresenta il principale intervento di prevenzione. Al contrario di altri virus (per esempio quello del morbillo o della rosolia), i virus influenzali sono soggetti a continui cambiamenti degli antigeni, vale a dire le strutture che vengono riconosciute dal nostro sistema immunitario. Queste modifiche fanno sì che chi si è ammalato in passato di influenza può ammalarsi di nuovo e sono tra i fattori responsabili della difficoltà di produrre vaccini antinfluenzali efficaci nel proteggere dalla malattia.
A causa quindi dei cambiamenti antigenici, ogni anno è necessario modificare la composizione del vaccino; l’OMS stabilisce a febbraio quali sono i ceppi di virus da includere nel vaccino per i paesi dell’emisfero settentrionale e a settembre quelli per l’emisfero meridionale, basandosi sui dati dei virus circolanti nei mesi precedenti e cercando di prevedere quali ceppi circoleranno nella stagione successiva. In genere vengono scelti tre o quattro ceppi virali (due di tipo A, e uno o due di tipo B). È possibile, come è capitato anche nel recente passato, che avvengano delle modifiche nella struttura dei virus dopo che è stata decisa la composizione del vaccino e avviata la sua produzione. Questa mancanza di corrispondenza tra ceppi contenuti nel vaccino e ceppi circolanti può comportare una scarsa efficacia protettiva.
In ogni caso, anche negli anni in cui c’è stata una buona corrispondenza tra ceppi vaccinali e circolanti, la stima dell’efficacia del vaccino si è attestata intorno al 40-60%, cioè a un livello inferiore a quella di altri vaccini.
Ci sono numerosi motivi alla base di questa efficacia non ottimale. Per esempio, la risposta alla vaccinazione è influenzata da precedenti esposizioni ai virus (per malattia o somministrazione del vaccino) e da fattori individuali, come l’età o la presenza di malattie. Un altro fattore che può modificare l’efficacia dei vaccini è il fatto che i virus impiegati nella loro composizione sono coltivati nelle uova: è possibile che nel corso del processo di produzione i virus per potersi moltiplicare si adattino all’ambiente e modifichino la loro struttura, riducendo la possibilità da parte del nostro sistema immunitario di produrre anticorpi in grado di riconoscere il virus responsabile dell’epidemia di quella stagione.
C’è quindi bisogno di un vaccino “universale” contro l’influenza che possa proteggere contro ceppi e varianti differenti con una durata di protezione maggiore di quella attuale.
Nonostante l’efficacia non ottimale, il vaccino antinfluenzale rimane, comunque, un prezioso intervento di salute pubblica – sostengono i ricercatori nel loro articolo sul «NEJM» – ed è sempre preferibile vaccinarsi. I Centri di Controllo e Prevenzione delle malattie degli Stati Uniti (Centers for Disease Control and Prevention, CDC) hanno infatti stimato che tra le stagioni 2005-2006 e 2013-2014 la vaccinazione antinfluenzale abbia evitato 40.000 morti. Di queste morti (potenzialmente) evitate, 9 su 10 riguardavano soggetti di età maggiore o uguale a 65 anni: tali soggetti, insieme a chi soffre di malattie croniche (per esempio, asma, diabete, cardiopatie) rappresentano la popolazione a cui la vaccinazione è maggiormente raccomandata, in quanto a rischio più elevato di complicanze influenzali.
Alcune misure efficaci per la prevenzione dell’influenza:
medico e specialista in Farmacologia Clinica, ricercatore presso il Laboratorio per la Salute Materno Infantile dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS di Milano, dove è responsabile dell’Unità di Farmacoepidemiologia. Si occupa principalmente del monitoraggio dell’uso dei farmaci nei bambini e negli adolescenti e del trasferimento dell’informazione sull’impiego dei farmaci, in particolare per quanto riguarda la gravidanza, l’allattamento e l’età pediatrica, agli operatori sanitari e ai cittadini.