L’ingresso al nido rappresenta il primo distacco significativo del bambino, che inizia a fare esperienze proprie, lontano dall’ambiente domestico e dai genitori. Si costituisce un nuovo equilibrio, che include la presenza importante di persone inizialmente estranee.
«Sarà pronto?… Sarà la scelta giusta?… Come faremo a capire se sta andando tutto bene?». Anche le mamme e i papà si trovano ad affrontare l’inserimento al nido dei propri figli con emozioni contrastanti, dubbi e preoccupazioni.
In passato il bambino doveva adattarsi – in un tempo spesso insufficiente – a una realtà precostituita, nella quale veniva appunto “inserito”. Una maggiore consapevolezza dell’importanza delle esperienze relazionali per lo sviluppo affettivo, emotivo e cognitivo dei piccoli ci ha portato a prediligere il concetto di “ambientamento”. Per potersi aprire con fiducia alla nuova esperienza, infatti, il bambino necessita di un ambiente fisico e relazionale accogliente. Il rispetto dei tempi, dei modi e delle emozioni di ciascuno è la base su cui costruire una relazione e una collaborazione sana tra educatrici, bambino e famiglia.
Come riportano gli Orientamenti nazionali per i servizi educativi per l’infanzia, adottati con decreto ministeriale nel febbraio scorso: «Non è il bambino che deve adattarsi al contesto, ma è quest’ultimo che deve essere predisposto affinché il bambino possa ambientarsi, utilizzare tutte le proprie risorse e sviluppare tutte le proprie potenzialità».
In questo articolo faremo un po’ di chiarezza in merito ai tempi e alle modalità che consentono di rendere l’ambientamento al nido un’opportunità di crescita serena per il bambino e anche per i genitori.
Esiste un’età giusta per portare il bambino al nido? Precisiamo subito che la scelta del nido è un’esigenza che risponde ai bisogni dei genitori più che del bambino: può essere un’esperienza positiva e di arricchimento per il piccolo, ma non si tratta di un passaggio obbligato.
I genitori che invece scelgono di non iscrivere i propri figli al nido vengono spesso rimproverati di rendere i bambini troppo dipendenti o di impedirne la socializzazione. Da qui la domanda: «Qual è l’età migliore per l’inserimento al nido?», come se si trattasse di un bisogno effettivo dei piccoli.
Gli studi sullo sviluppo e sull’attaccamento dimostrano l’importanza, prioritaria nei primi tre anni di vita, del contatto e delle cure prossimali per la costruzione di una relazione affettiva sicura, grazie alla quale il bambino si sentirà libero di esplorare con crescente fiducia il mondo. Il bambino necessita quindi di figure di attaccamento stabili e disponibili, che si prendano cura di lui in un rapporto il più possibile uno a uno.
La dipendenza dai genitori, insomma, non è un vizio da sradicare, ma un punto di partenza per la conquista dell’autonomia: non è opportuno forzare il distacco tra genitori e bambino al fine di rendere quest’ultimo “indipendente”; sarà il piccolo stesso, quando sarà pronto, a compiere i primi passi verso il mondo, mantenendo un equilibrio tra il bisogno di sicurezza emotiva e la spinta verso l’esplorazione.
Nella società odierna i genitori si trovano spesso soli, con nonni talvolta lontani o impegnati lavorativamente, nel tentativo di conciliare le molte richieste esterne (lavorative, familiari, sociali) con i bisogni totalizzanti dei figli ancora piccoli.
Inoltre, rispetto alla vita del villaggio, che prevedeva la condivisione nella comunità delle attività e degli spazi includendo adulti e bambini di ogni età, ma anche rispetto alle realtà urbane di qualche decennio fa, in cui i bambini trascorrevano il tempo liberamente per le strade, i nostri figli hanno sempre meno opportunità di movimento, di partecipazione alla vita collettiva, di interazione con i coetanei e con gli adulti.
Il nido può dunque rappresentare un’opportunità per i genitori e, nel contempo, può “introdurre” il bambino alla socializzazione. Si tratta comunque di un ambiente protetto, pensato e strutturato “a misura di bambino”, che, se ben gestito, può soddisfare le necessità dei genitori senza negare ai bambini il contatto, le attenzioni e le cure di cui hanno bisogno. Ma per tornare alla nostra domanda, a quanti mesi il bambino può essere davvero pronto per l’inserimento al nido?
È ancora molto diffusa la raccomandazione secondo cui l’età giusta per portare il bambino al nido sarebbe prima degli 8 mesi di vita. Ciò permetterebbe di anticipare la comparsa della “paura dell’estraneo” per cui il bambino, in precedenza socievole, mostra segnali di forte disagio in presenza di volti sconosciuti; a questo si accompagna l’ansia che i bambini sperimentano quando sono separati dai genitori o da chi abitualmente si prende cura di loro.
Si tratta di una fase normale dello sviluppo: il bambino acquisisce una maggiore consapevolezza che gli consente di discriminare tra le sue figure di attaccamento e il mondo esterno. L’attaccamento (sicuro) lo rassicura, mentre l’allontanamento dalle figure di riferimento induce in lui uno stato di possibile allerta.
Se l’obiettivo è quello di far abituare in poco tempo il bambino alla struttura e alle educatrici senza che manifesti tristezza o preoccupazione, l’inserimento al nido entro i 6-7 mesi può effettivamente rivelarsi una buona strategia. Se invece si desidera tenere in considerazione i bisogni del piccolo, va considerato che fino ai 9-12 mesi di vita le sue necessità primarie sono analoghe a quelle che aveva all’interno dell’utero: calore, contatto e protezione.
Se i genitori, per vari motivi, hanno l’esigenza di affidare il piccolo ad altri durante la giornata, può essere preferibile una soluzione che preveda comunque un rapporto uno a uno con una figura di accudimento stabile e fidata, che non debba dividersi tra più bambini in un momento in cui questi necessitano di un legame esclusivo.
La paura dell’estraneo e l’ansia da separazione raggiungono il loro picco intorno ai 15 mesi e non si risolvono del tutto prima dei 18-24 mesi. Ma non vanno certamente considerate un ostacolo per l’inserimento al nido. Come vedremo in seguito, un ambientamento rispettoso delle emozioni del bambino consente di stabilire una relazione affettiva con l’educatrice prima del distacco, tale da rendere quest’ultima una figura di attaccamento stabile.
Un’età ragionevole per l’inserimento al nido potrebbe quindi coincidere con l’avvio dell’esplorazione fisica e sociale consentita dalle conquiste motorie e linguistiche del bambino, intorno al primo compleanno.
Intorno ai 18-24 mesi il bambino avrà raggiunto la maturazione e la sicurezza ideali per poter vivere a pieno l’esperienza offerta dal nido. Un nido rispettoso potrà quindi costituire una risorsa importante, che accompagnerà il piccolo nella sua crescita quando non possono farlo i genitori.
Non è invece detto che un passaggio al nido a questa età favorirà necessariamente l’ingresso successivo alla Scuola dell’Infanzia: sarà comunque necessario un nuovo ambientamento, nonché la creazione di nuove relazioni.
Nel valutare il momento migliore per l’inserimento al nido, naturalmente, l’età anagrafica non è l’unico fattore da considerare. Vediamo alcuni esempi di bambini che hanno da poco compiuto un anno di età:
Per scegliere quando iscrivere al nido Adele, Marco e Chiara, non avrebbe senso considerare come unico parametro la loro età. Le loro esperienze di vita sono infatti completamente diverse, così come le loro opportunità di movimento, interazione e contatto con le figure di accudimento (che nel caso di Marco includono la tata).
Oltre a domandarsi se esiste un’età giusta per l’inserimento del bambino al nido, occorre tenere conto di altre variabili, tra cui le caratteristiche del nido. Sotto l’anno di vita, ad esempio, potrebbe essere opportuno prediligere un micronido o un nido-famiglia, ovvero strutture che, grazie alle dimensioni contenute e a un ambiente più familiare, consentono un miglior compromesso con le esigenze del piccolo. Un bambino di 2 anni, invece, potrebbe necessitare di uno spazio più ampio, preferibilmente all’aperto.
Se si ha la possibilità di scegliere tra diverse strutture presenti nel territorio, ecco una domanda fondamentale da porre in sede di colloquio: come funziona l’inserimento al nido? Il programma per l’inserimento al nido può essere infatti molto diverso tra una struttura e l’altra.
Il bambino, nell’arco dei primi tre anni di vita, acquisisce gradualmente la comprensione di essere un individuo separato rispetto ai genitori, e impara a conoscersi attraverso la relazione con le figure di riferimento. L’ambientamento al nido rappresenta quindi un aspetto molto delicato per il suo sviluppo psicoaffettivo.
Conoscere le tappe dell’inserimento al nido può dare una prima idea di cosa aspettarsi, ma è importante tenere presente che ogni situazione è a sé, e seguire una procedura o uno schema stabilito a priori non permette di tener conto dei bisogni specifici di ogni singola famiglia.
Gli orientamenti nazionali sopra citati sostengono chiaramente l’importanza della costruzione di una alleanza tra scuola e famiglia: «Alleanza e fiducia sono inscindibili e si costruiscono nella reciprocità. L’informazione e la conoscenza diretta del contesto, così come una costante disponibilità all’ascolto e al dialogo da parte degli educatori, sono i primi mattoni per iniziare a costruire un rapporto di fiducia con l’ambiente e il personale».
Capita spesso, invece, che i genitori si sentano dire, già dal primo giorno di ambientamento: «Dovete fidarvi, altrimenti il bambino percepirà la vostra preoccupazione e verrà condizionato negativamente nei confronti del nido». Un giudizio del genere non fa altro che confondere il genitore e instillare inutili sensi di colpa. La fiducia si costruisce insieme, non si può pretendere, e richiede tempo e apertura all’altro.
Gli orari e i tempi di permanenza al nido, così come la durata complessiva dell’ambientamento, andrebbero valutati giorno per giorno nel rispetto delle emozioni di tutti, senza affrettare i passaggi dell’inserimento. Generalmente, è consigliabile mantenersi disponibili per un minimo di due settimane.
A volte la richiesta di velocizzare i tempi arriva dalla famiglia, che fatica a trovare un equilibrio con esigenze esterne impellenti, come il rientro al lavoro. Il rischio di forzare un bambino quando non è ancora pronto è però quello di rendere questo passaggio traumatico e fonte di stress, complicando l’esperienza per tutti nel più lungo periodo.
Se è vero che i bambini “si adattano a tutto”, la domanda che dovremmo porci più spesso è: «A quale costo?».
Vediamo allora di seguito i principali passaggi dell’inserimento al nido:
Fondamentale è il momento del saluto: il bambino deve sapere che il genitore si sta allontanando, che lo sta affidando all’educatrice, e che farà ritorno in seguito; allontanarsi senza salutare comunica al bambino che non si può fidare del genitore, e che potrebbe essere lasciato solo in qualunque momento, aumentando (comprensibilmente) la sua paura del distacco.
Da qualche anno si sta diffondendo in Italia la sperimentazione di un metodo alternativo proveniente dalla Svezia. Vediamo come funziona l’inserimento al nido svedese, detto anche “dei tre giorni”, o più propriamente “guidato dal genitore” o “partecipato”.
Innanzitutto, non c’è una gradualità, né la necessità di un lungo periodo di ambientamento. Si racchiude tutto in tre giorni, che il bambino trascorre a tempo pieno nella struttura, ma accompagnato per l’intera giornata dal genitore.
Il vantaggio di questo metodo non è tanto nella velocità di ambientamento, quanto piuttosto nella possibilità offerta al bambino di vivere ogni fase della sua nuova quotidianità con la figura di riferimento, prima di trovarsi solo con le educatrici.
Il tempo trascorso al nido in questi tre giorni è maggiore del tempo complessivo di un ambientamento tradizionale, che ha il forte limite di non permettere subito al bambino di capire cosa lo attende, dato che il genitore è presente solo nelle prime ore della mattina, solitamente dedicate al gioco libero. Nell’ambientamento tradizionale quando il bambino inizia a fermarsi per il pasto, e successivamente per il riposo, il genitore non c’è già più, e le novità devono essere assorbite contando direttamente sulla presenza dell’educatore.
Nell’ambientamento svedese il bambino, dal quarto giorno, proseguirà le sue giornate senza il genitore, che rimane a disposizione in caso di bisogno, svolgendo attività e routine che ha già vissuto in sua presenza, e che gli sono note.
Rispettare i tempi e i modi del bambino significa anche essere disposti a “tornare indietro” se manifesta disagio in un momento successivo. La calma è fondamentale per dar tempo alle emozioni di emergere, in modo da affrontarle insieme.
È consigliabile spiegare sempre al bambino cosa sta succedendo, ad esempio che le educatrici si prenderanno cura di lui fino al ritorno della mamma o del papà. Le spiegazioni razionali non hanno però l’obiettivo di “non farlo piangere”: è importante che sappia che le sue emozioni sono legittime (anche quelle “negative” come rabbia, tristezza o paura) e che non si senta “sbagliato” per quello che prova.
Sminuire il suo vissuto, tentare di distrarlo o pretendere che manifesti solo emozioni positive farà sentire il bambino sbagliato, portandolo a reprimere ciò che sente con conseguenze sul suo sviluppo affettivo e cognitivo nel lungo periodo.
La presenza empatica, la fiducia e l’ascolto della famiglia e dell’educatrice possono invece aiutarlo a vivere a pieno l’emozione, riequilibrarsi e poi passare oltre.
Al di là del metodo scelto e del programma, l’inserimento al nido dipende dalle persone, e dal valore che danno alle emozioni. Ma vediamo di seguito cosa fare se l’ambientamento non procede come sperato e il bambino continua a manifestare disagio.
Come superare i problemi dell’inserimento al nido quando la struttura scelta con tanta cura si mostra diversa dalle aspettative? Oppure cosa fare se il bambino piange sempre al nido e non trova conforto nelle educatrici? Vediamo alcuni consigli per gestire l’inserimento al nido in caso di difficoltà.
Innanzitutto, un ambientamento sereno si può preparare e accompagnare anche da casa. Questo non significa cambiare le abitudini domestiche, ad esempio gli orari dei pasti o le modalità di addormentamento (l’ingresso al nido rappresenta già un cambiamento significativo, chiedere al bambino di fare a meno delle sue sicurezze anche a casa non può in alcun modo essergli di aiuto). Al contrario, è importante che l’esperienza del nido si vada a integrare con il “suo mondo” portando qualcosa di nuovo, non sottraendo il piccolo ai suoi affetti e alle sue fonti di stabilità.
Stesso discorso vale per le modalità di accudimento scelte dai genitori. Il bisogno di cura, affetto, contatto non è frutto di cattive abitudini familiari, ma è una necessità fisiologica. Di conseguenza, un bambino allattato al seno o abituato a dormire a contatto con i genitori non ha un “vizio” che complica il suo ambientamento al nido. Sarà piuttosto “abituato” a vedere che i suoi bisogni vengono presi in considerazione, quindi chiederà a gran voce alle educatrici di fare altrettanto, nelle modalità a loro possibili dato il contesto (ad esempio essere presi in braccio, essere rassicurati…).
La difficoltà per un’educatrice di rispondere da sola contemporaneamente al bisogno di cure prossimali di 7-8 bambini piccoli non può essere attribuita a richieste “eccessive” dei piccoli, ma a una scelta gestionale inconciliabile della struttura.
Quali sono quindi i consigli pratici per accompagnare l’inserimento al nido anche da casa?
Durante le ore di compresenza, dovrebbero essere le educatrici a fornire eventuali consigli per gestire l’inserimento al nido, ad esempio dove potete sistemarvi perché possiate essere visti e raggiunti facilmente dal bambino.
In caso di disaccordo con le modalità proposte, ad esempio in caso di inserimenti troppo frettolosi o richieste inconciliabili con le proprie modalità di accudimento (per esempio essere invitati a non allattare anche se il bambino lo richiede), è importante cercare un dialogo e comunicare apertamente i propri bisogni e le proprie perplessità.
Partendo dal presupposto che l’obiettivo sia da ambo le parti il benessere del bambino, è possibile cercare un punto comune mantenendo apertura e accoglienza per le esigenze di tutti.
Attenzione però a non lasciarsi colpevolizzare (come anticipato a proposito delle modalità di accudimento), e a non cedere al ricatto del “si è sempre fatto così!”. Se i consigli per l’inserimento al nido che vi vengono offerti non rispondono ai bisogni della vostra famiglia, non vanno presi come prescrizioni indiscutibili. Meglio piuttosto condividere il disaccordo, e proporre attivamente una modalità alternativa.
A tal proposito, citiamo nuovamente gli orientamenti nazionali: «La conflittualità è una dinamica connaturata alla relazione. La discussione aperta e sincera intorno alle dissonanze, alle visioni contrastanti o a quello che può avere causato incomprensione deve però avvenire dentro a tempi, modi e luoghi opportuni».
Niente da fare, nonostante i vostri tentativi di rendere l’ambientamento una transizione serena, vostro figlio non ne vuole proprio sapere e a ogni tentativo di distacco scoppia in un pianto dirotto. Cosa fare se al nido piange sempre e non si lascia consolare?
Se è vero che il bambino piange per comunicare, questo non significa che il suo pianto debba essere ignorato. Domandiamoci piuttosto che cosa sta comunicando. Ad esempio, è felice di entrare al nido ma un po’ preoccupato di cosa lo aspetta? Oppure è contento di entrare al nido ma dispiaciuto di allontanarsi dal genitore? A ogni domanda corrisponde una diversa modalità di rassicurazione.
Diversa è la situazione in cui il pianto è di paura o disagio, se non passa all’uscita del nido e non si placa durante la giornata. Altri segnali forti di malessere possono includere vomito, inappetenza, nervosismo, difficoltà a dormire. Indipendentemente dal motivo, sono manifestazioni chiare da parte del piccolo (non si sente sicuro nel nuovo ambiente) e vanno tenute in seria considerazione.
Rispetto all’eventuale indicazione di andare via mentre il bambino piange perché «tanto poi smette», ricordiamoci che il piccolo non può prevedere gli effetti del suo comportamento sugli altri (il suo non è un pianto “manipolatorio”). Il motivo per cui smette di piangere in assenza dei genitori è che il suo segnale di richiamo si rivela inefficace («A che scopo chiamare se la mamma non c’è più?»).
Analogamente, il consiglio di far accompagnare il bambino da altre persone con cui “piange meno” rischia di avere effetto sul suo comportamento ma non sulle sue emozioni.
Se il bambino continua a manifestare disagio, non riuscite a trovare un punto di incontro con il nido e non avete la possibilità di valutare altre soluzioni, è ancora più importante parlare a casa delle emozioni provate, offrire rassicurazioni aggiuntive, comunicare presenza e comprensione. Mantenere una connessione emotiva con il bambino e avere fiducia nella sua competenza nel comunicare di cosa ha bisogno vi permetterà di trovare la strada migliore per far sì che l’esperienza del nido non diventi un trauma da superare, ma sia una risorsa di valore a cui attingere per una crescita serena.