Camminiamo da sempre e grazie al cammino la nostra specie si è potuta evolvere e diffondere sulla Terra. Il nostro corpo è fatto per camminare, per correre, per resistere a lunghe marce. Ci viene naturale come respirare e non abbiamo bisogno che ci venga insegnato, lo impariamo da soli. Il cammino ci aiuta ad ascoltare il nostro corpo e i nostri pensieri, ci mette in relazione con l’ambiente che ci circonda e con le persone che lo vivono. Lo sapeva bene Virginia Woolf quando ha raccontato la passeggiata di Clarissa Dalloway tra le strade di Londra, una delle più celebri e indimenticabili passeggiate della letteratura: la città e la sua animazione accompagnano i pensieri di Clarissa in un flusso ininterrotto di ricordi, riflessioni e suggestioni, scandito dal passare delle ore e dai rintocchi del Big Ben.
Virginia Woolf ha saputo raccontare in modo indimenticabile tutto quello che può rappresentare una semplice passeggiata in città, qualcosa che potrebbe essere alla portata di tutti ma che, come sembrano dimostrare i numeri, praticano in pochi, almeno nel nostro Paese. Di questa occasione mancata e di tutto quello che perdiamo con essa ci parla Guido Bizzaglia nel suo libro La città che cammina.
Il 55% degli italiani non si sposta mai a piedi, non va in biciletta, non balla, non fa giardinaggio. La principale modalità di spostamento è il mezzo privato, lo sappiamo bene: le nostre città contano 70 automobili ogni 100 abitanti. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti e ormai da anni gli studi scientifici cercano di metterci in guardia contro i danni provocati dall’inquinamento e dalla sedentarietà. Ma non si tratta soltanto di questo; in gioco ci sono tanti aspetti, primo fra tutti la qualità della vita, nostra e dei nostri bambini.
Non ci pensiamo mai, ma la città, intesa come luogo di aggregazione e di convivenza solidale, in cui si è liberi di muoversi, di respirare, di comunicare senza impedimenti e ostacoli è un luogo di democrazia. Se le città diventano degli spazi occupati soltanto dalle automobili, in cui è pericoloso e sgradevole spostarsi a piedi, le persone che ci vivono smettono di abitarle nel senso vero del termine, non possono più dar loro il senso di un luogo connotato dalle sue relazioni, dai suoi edifici, dai suoi spazi di gioco, d’incontro, d’integrazione. I sociologi parlano di queste città definendole “non luoghi”, spazi privi di personalità e di memoria in cui gli abitanti sono estranei gli uni agli altri, stranieri nella propria città.
Guido Bizzaglia ci spiega come tornare a camminare significhi avviare un processo di riqualificazione globale delle città, degli spazi pubblici e della nostra vita. Quando camminiamo, infatti, guardiamo il paesaggio, ce ne appropriamo e siamo in grado di apprezzarne le caratteristiche; sentendo come nostri gli spazi pubblici, li rispettiamo e chiediamo che vengano rispettati o riqualificati, richiamando gli amministratori alle loro responsabilità e sentendoci parte della vita politica. Camminando incontriamo altre persone, impariamo a conoscerle e a proteggerle se necessario, attiviamo quella reciprocità insita in ogni comunità solidale e quel controllo sociale che rende i luoghi che abitiamo più sicuri. Camminando non consumiamo energia se non le calorie che abbiamo accomulato mangiando, non inquiniamo e compiamo il movimento necessario al nostro corpo per mantenersi attivo e in salute. Insieme a chi si sposta in bicicletta, camminando potremmo mettere in atto quella rivoluzione che ci porterebbe a riappropriarci delle nostre città sentendoci finalmente liberi. Ma per restituire le città ai cittadini è necessaria la partecipazione di tutti, nessuno escluso.