La “comunicazione gentile” tra mamma e ostetrica

Il percorso che va dalla gravidanza al post-parto è entusiasmante, ma anche delicato. Per questo è importante avere accanto un’ostetrica che sappia guidare e sostenere la futura mamma nelle sue scelte, attraverso una comunicazione efficace ed empatica

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Silvia Brogi , ostetrica
Dolore di una donna durante il parto

La rivista specializzata «The Lancet Series on Midwifery» definisce l’ostetricia come «assistenza qualificata, competente e compassionevole per donne in età fertile, neonati e famiglie durante tutto il percorso che va dalla gravidanza, alla nascita, al post-partum e alle prime settimane di vita. I suoi obiettivi principali sono l’ottimizzazione dei normali processi biologici, psicologici, sociali e culturali di riproduzione e dei primi anni di vita; la prevenzione e gestione tempestiva delle complicanze; la consultazione e il rinvio ad altri servizi; il rispetto delle circostanze e delle opinioni individuali delle donne, lavorando in collaborazione con le donne stesse per rafforzare la loro capacità di prendersi cura di sé e della famiglia» [1] .

Una disciplina “dinamica”

L’ostetricia, dunque, è una disciplina ben definita, che nel corso del tempo ha modificato i propri valori e la propria filosofia, andando incontro alle diverse aspettative delle donne e alle loro richieste. L’importanza di una scelta informata su parto e post-parto (ancor più necessaria in caso di parto gemellare) e del coinvolgimento attivo della donna durante tutto il percorso sono oggi considerati elementi fondamentali, e l’obiettivo è la creazione di una vera e propria “alleanza terapeutica”, in cui siano adeguatamente presi in considerazione i bisogni di salute e benessere della donna e dei suoi familiari.

Da tempo, quindi, si è cercato di superare l’atteggiamento di paternalismo benevolo, per lasciar spazio al principio di autodeterminazione basato sul rispetto di scelte e valori delle singole donne, e concentrandosi piuttosto sugli strumenti necessari per essere una “buona ostetrica[2] . Questi ultimi sono spesso quelle soft skills (competenze “morbide”, di tipo relazionale) che in passato erano considerate qualità cosiddette “minori”, ma che in realtà hanno un ruolo determinante nell’offrire una risposta adeguata ai bisogni delle future mamme (come ad esempio il confronto e l’informazione a proposito di contraccezione in puerperio, fisiologia del desiderio sessuale e nuove dinamiche e nuova sessualità dopo il parto).

Oggi, nei protocolli di formazione per le ostetriche, è esplicitamente previsto che acquisiscano abilità professionali che consentano di offrire cure «sicure, competenti, gentili, compassionevoli e rispettose».

La “buona ostetrica”

Chi è, allora, una “buona ostetrica”? Questa definizione viene applicata in letteratura a una professionista che abbia determinate competenze in ambito non solo cognitivo e psicomotorio, ma anche affettivo. La competenza in campo affettivo si manifesta attraverso l’affinamento dell’intelligenza emotiva e dell’empatia, lo sviluppo di una personalità premurosa e la capacità di ricorrere a emozioni e sentimenti come la gentilezza e, soprattutto, la compassione, considerata fondamentale per un’assistenza infermieristica e ostetrica di qualità [4] .

Esistono già diverse ricerche che si occupano del concetto di “compassione” nell’allattamento, mentre ancora poco si è riflettuto sulle caratteristiche specifiche di una cura compassionevole in ostetricia, indispensabile per ridurre l’incidenza di abusi e della mancanza di rispetto dei diritti delle donne in gravidanza e partorienti, situazioni purtroppo ancora molto frequenti, come segnalato a più riprese dall’Organizzazione Mondiale della Sanità [5] . Ed è sempre l’OMS a fornire indicazioni sul significato di “compassione”, ribadendo come sia proprio la sua promozione a garantire un’assistenza di qualità: la compassione deve essere un «sentirsi insieme, in compagnia di qualcun altro» e al contempo un «agire ed eseguire azioni di gentilezza, per fornire sollievo alla sofferenza o al dolore». Si tratta tuttavia di definizioni generiche, e il modo in cui la compassione si manifesta concretamente nelle cure ostetriche non segue uno standard uniforme, ma differisce da operatore a operatore e muta in ogni singolo contesto sociale e culturale. 

Le cure compassionevoli

In Italia, valorizzare lo strumento delle cure compassionevoli è certamente il primo passo per andare incontro alle necessità manifestate dalle mamme e dalle loro famiglie nei percorsi di gravidanza, parto e post-parto. In che modo? Innanzitutto favorendo una comunicazione efficace e “positiva” tra tutti coloro che partecipano al processo – la donna, il personale sanitario, i familiari. Una comunicazione che funziona migliora gli esiti di tutte le pratiche di assistenza e condiziona in modo significativo l’esperienza della donna, influenzando la sua salute mentale e fisica e la futura relazione con il bambino.

Quanto possa incidere un sostegno attivo e una comunicazione aperta nell’assistenza materna è evidenziato dagli eccellenti risultati che si ottengono garantendo la presenza del partner durante il travaglio: una revisione sistematica mostra che si riducono i tassi di parti cesarei, i parti operativi, l’uso di analgesia e, in generale, i sentimenti “negativi” riguardo alla nascita.   

Il valore della comunicazione

La comunicazione è poi indispensabile per assicurarsi che ogni donna sia consapevole dei propri diritti: la possibilità di scegliere il tipo di assistenza e di parto, la persona da avere accanto, il rispetto della privacy. È quindi compito dell’ostetrica usare un linguaggio che “responsabilizzi” la donna in questo senso, che sia chiaro ed efficace.

“Compito” della donna è invece quello di sentirsi in diritto di esprimersi liberamente senza remore, né filtri. La comunicazione ha una struttura circolare, che coinvolge sia chi fornisce informazioni sia chi le riceve, e nell’ambito delle relazioni d’aiuto “fornitore” e “ricevente” si scambiano continuamente ruolo. Nel dettagli, ecco le fasi che identificano una buona ed efficace comunicazione:

  • Sentirsi accolta. È la fase preliminare della comunicazione. Accogliere l’altro significa riconoscerlo in quanto essere umano, unico e irrepetibile, metterlo a proprio agio individuando i suoi bisogni essenziali e fondamentali, in modo particolare quello di sentirsi rispettato e amato. 
  • Sentirsi ascoltata. Per noi operatori questa è un’arte difficile: non siamo più abituati ad ascoltare, assorbiti da una quotidianità frenetica; l’ascolto, poi, è influenzato da alcuni fattori “disturbanti”: le preoccupazioni personali, il desiderio di offrire immediatamente delle risposte, il disinteresse, la paura del coinvolgimento emotivo… Per ascoltare è indispensabile il silenzio esterno e interiore, poiché unicamente sapendo ascoltare noi stessi sapremo ascoltare gli altri. Dalla predisposizione a rimanere in silenzio sorge la capacità di un ascolto che presta attenzione all’altro senza pregiudizi e senza riserve. A queste condizioni possiamo definire l’ascolto un “atto spirituale”, poiché nato dalla competenza interiore, dall’eco interiore proprio di ciascuno.
  • Sentirsi non giudicata. Giudicare ed etichettare reprimono la comunicazione e bloccano ogni relazione. A volte emettiamo giudizi, anche se possediamo solo pochi e frammentari indizi. Con questo atteggiamento, che denota  il timore del confronto e l’incapacità di abbandonare il proprio punto di vista, è impossibile gestire una valida relazione. Percepire rigidità e “assolutismo” nell’altro, infatti, induce a irrigidimenti difensivi, mentre sentirsi compresi e percepire accolte le proprie confidenze serve ad aprire al dialogo.
  • Mantenere un contatto continuo con la propria interiorità. Unicamente rimanendo in contatto con la propria interiorità è possibile comprendere il significato delle nostre azioni, mantenendoci onesti con noi stessi e con gli altri. Ciò permetterà di chiedere scusa quando, in certi momenti, è necessario: «Non so ascoltarti perché adesso non sono sereno», «Non riesco a capire quello che dici perché ora sono confusa». 
  • Farsi carico dei dubbi e delle richieste. Spesso le richieste delle donne manifestano il desiderio che i loro dubbi, l’angoscia, i timori siano “presi a cuore” dall’interlocutore. In questo caso il “silenzio partecipativo” è sufficiente a comunicare la propria disponibilità all’ascolto. Altre volte esprimono il bisogno di capire a fonda che cosa stia accadendo: l’operatrice, allora, dovrà trovare il modo di fornire una risposta che comprensibile e adatta alla propria interlocutrice. 
  • Percepire i confini e gli spazi della comunicazione. Per le donne in gravidanza è utile individuare e percepire i confini delle relazioni, e interrogarsi su ciò che si aspettano di incontrare nell’ostetrica che le accompagnerà.  
  • Prendere il tempo necessario. Concedere a qualcuno tutto il tempo di cui ha bisogno è un dono prezioso, in un’epoca in cui è più facile sentirsi dire: «Adesso non ho tempo». Quando, per necessità, il tempo a disposizione per la comunicazione sarà breve, è opportuno trovare il modo di renderlo comunque significativo

Scegliere le parole da non dire è altrettanto importante che scegliere quelle da usare, e la cura del linguaggio è il primo passo attraverso cui si manifesta il rispetto nei confronti dell’interlocutore

Niente è più rivoluzionario che l’uso corretto e attento delle parole, che definiscono ciò che siamo in tutte le nostre azioni e relazioni. Andranno quindi maneggiate con cura, in modo che la “comunicazione gentile” diventi il perno del rapporto tra donna e ostetrica, e il punto di partenza per una maternità serena e consapevole.

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Silvia Brogi

Ostetrica presso i presidi ospedalieri di S. Donà di Piave (VE), Policlinico Universitario a gestione diretta di Udine e Azienda Ospedaliera e Universitaria di Careggi di Firenze. Nel corso della propria formazione ha approfondito in particolare la fisiologia della nascita, la cultura della sicurezza, gli strumenti della comunicazione efficace in ambito sanitario, l’intelligenza emotiva e il benessere organizzativo nei luoghi di lavoro.

Note
[1] Mary J. Renfrew, Alison McFadden, Maria Helena Bastos, et al., Midwifery and quality care: findings from a new evidence-informed framework for maternal and newborn care, The Lancet, 2014, 384 (9948)
[2] Sara Elisabetta Borrelli, What is a good midwife? Insights from the literature, Midwifery, 2014, 30 (1)
[4] Shane Sinclair, Susan McClement, Shelley Raffin-Bouchal, et al., Compassion in Health Care: An Empirical Model, Journal of Pain and Symptom Management, 2016, 51 (2)
[5] World Health Organization, The prevention and elimination of disrespect and abuse during facility-based childbirth, WHO Report, 2015
Bibliografia
Articolo pubblicato il 12/02/2021 e aggiornato il 02/02/2023
Immagine in apertura Nico189

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