«Educare un bambino non è un piacevole svago, ma un lavoro in cui occorre impiegare la fatica di notti insonni, il capitale di dure vicissitudini, e molti pensieri». Così scriveva Janusz Korczack, pedagogo e pediatra polacco, vittima dell’Olocausto, che si dedicò alla cura e all’educazione dei bambini orfani tra la Prima e la Seconda guerra mondiale.
Della “fatica” dell’educare, intesa come dedizione, studio, ricerca, osservazione, scoperta del bambino, ci hanno parlato i grandi maestri (Montessori, Lodi, Milani solo per citarne alcuni), che hanno fatto la storia della pedagogia in Italia e non solo, dando vita a esperienze educative che hanno lasciato il segno, mettendo al centro il bambino e ripensando modi e tempi del processo educativo, tracciando percorsi che, ancor oggi, riscopriamo essere innovativi.
Nonostante la ricchezza del nostro patrimonio culturale nell’ambito dell’educazione infantile, oggi non sempre il ruolo di chi lavora con i bambini viene ancora adeguatamente riconosciuto nel suo valore fondamentale per la crescita delle donne e degli uomini del domani. Per fare un esempio è ancora assai comune il pensiero che, per lavorare con i bambini, basti “l’amore” per i piccoli, o che, in fondo, sia un mestiere abbastanza semplice: «Si tratta solo di farli giocare».
Lavorare con i bambini è in realtà un mestiere estremamente delicato e complesso, che non può essere improvvisato e che richiede che le qualità personali vengano supportate da un’adeguata formazione professionale, dal costante confronto tra operatori, dall’apertura e riflessione sulla propria pratica educativa.
Senza voler essere esaustivi, possiamo immaginare che il primo passo dell’educatore sia… un passo indietro. Invece di pensare al fare, al programma, alle attività, a cosa vorremmo trasmettere al bambino, è infatti necessario del tempo – tutto il tempo che ci vuole – per conoscere il piccolo, ascoltarlo, incontrarlo. D’altra parte, come sappiamo bene, è il significato stesso della parola “educare” (da ex e ducere: trarre fuori) che invita l’adulto a fermare la propria naturale tendenza a voler “mettere dentro” il bambino quantità di nozioni e insegnamenti. Per l’educatore fare un passo indietro significa allora creare intenzionalmente le condizioni per ascoltare e osservare il bambino e poter così comprendere i suoi bisogni.
Osservare il bambino dà accesso alle sue curiosità, alle sue attitudini e necessità, ma osservare significa innanzitutto non intervenire: mentre un bambino sta cercando “cosa fare e come farlo”, bisognerebbe lasciarlo libero di agire e provare, anche sbagliando. A volte però abbiamo paura che il bambino, sperimentando in autonomia, si possa far male, allora interveniamo bloccando o correggendo le sue azioni, per prevenire il danno. In realtà il bambino quasi sempre si muove e agisce nel mondo con padronanza di sé, misura le proprie azioni con attenzione e ne sa valutare i rischi. I piccoli perdono questa naturale competenza perché non sono stati lasciati liberi di muoversi ed esercitarsi o perché sono disorientati dal vivere in ambienti pieni di divieti, confusionari, organizzati sulle esigenze degli adulti. Invece di intervenire sul bambino è necessario allora intervenire sull’ambiente educativo.
Ogni bambino costruisce il suo essere, le sue idee e la sua intelligenza attraverso le esperienze. Ascoltare il bambino significa anche predisporre l’ambiente, “per” e “con” lui. La sistemazione dell’ambiente nelle strutture educative come nido, scuola dell’infanzia, ludoteche, non può quindi essere statica, costituita una volta per sempre, ma deve variare in base all’evoluzione dei bisogni dei bambini che le frequentano. In generale un’organizzazione ordinata e semplice dei giochi, spazi e arredamenti a misura di bambino e alcuni piccoli accorgimenti funzionali, permetteranno al bambino di correre, saltare, raggiungere oggetti posti su un tavolino adatto alla sua altezza, salire e scendere le scale, provare a far da solo nelle faccende quotidiane. Sperimentando le sue piccole conquiste col corpo, il bambino nutrirà la sua mente.
Da quando il bambino inizia a esprimersi tramite il linguaggio verbale, le parole possono diventare una strada attraverso cui l’educatore può “incontrarlo” e “conoscerlo”. Anche in questo caso vale la regola del passo indietro: il primo ingrediente per ascoltare le parole di un bambino è l’interesse sincero che l’educatore prova nei suoi confronti, il valore che dà al suo pensiero. Ciò sarà visibile senza filtri attraverso il corpo, e darà al bambino la sensazione di potersi fidare. Se l’educatore ha un atteggiamento profondo di comprensione nei confronti del piccolo, sarà naturale guardarlo negli occhi, alla sua altezza, e chiamarlo per nome, dedicandogli attenzione. Poi servono tempo, pazienza e silenzio; bisogna aspettare che il bambino formuli a suo modo le idee, anche in più riprese, senza interrogarlo, interromperlo e senza anticipare la fine della frase, sicuri di sapere già cosa vuole dire. Una buona idea è provare a ripetere quanto detto dal bambino, così che sia lui poi a dirci se abbiamo effettivamente capito. Affinché un bambino parli di sé, dobbiamo regalargli parole nuove da sperimentare e un buon esempio.
Se l’educatore racconterà delle sue giornate, dei suoi pensieri, il bambino sarà stimolato a fare altrettanto. «Grazie, ci penserò su» potrà rispondere l’educatore quando il piccolo gli dirà qualcosa, perché le idee dei bambini sono talmente grandi che spesso gli adulti hanno bisogno di tempo per rifletterci.
pedagogista, svolge attività privata di consulenza pedagogica nel sostegno alla genitorialità e al percorso di crescita di bambini e adolescenti. Coordina progetti di educazione e accompagnamento alla morte e all’esperienza della perdita, si occupa di famiglie adottive e lavora come formatrice per gli operatori di nidi e scuole dell’infanzia nella provincia di Messina. È stata vicedirettrice di Uppa magazine dal 2018 e dal 2022 ne è diventata direttrice.