È noto da tempo che i traumi psichici, e più in generale gli eventi stressanti, possono modificare il comportamento di chi li ha subiti, anche a distanza di anni da episodi ormai lontani. I “disordini post-traumatici da stress” sono stati oggetto di numerosi studi che hanno preso in esame i processi emotivi di soldati impegnati sul campo di battaglia, o i disturbi emotivi e dell’umore di persone che hanno dovuto affrontare calamità naturali o abusi, o i disturbi del sonno.
Non sono soltanto gli adulti a subire gli effetti di stress e traumi: negli ultimi anni si è scoperto che il cervello dei bambini è molto sensibile all’azione degli ormoni coinvolti nello stress (in particolare il cortisolo, conosciuto per l’appunto anche come “ormone dello stress”) e alle alterazioni di alcune sostanze che veicolano le informazioni fra i neuroni, come noradrenalina, dopamina e serotonina (dette “mediatori nervosi”). La serotonina, in particolare, è al centro di numerosi studi che riguardano i suoi “recettori”, ossia le strutture che la intercettano e che sono coinvolte nella trasmissione degli impulsi nervosi tra le cellule: il funzionamento dei recettori è infatti sensibile agli effetti del cortisolo, nel senso che questo ormone li sensibilizza, rendendo il cervello più ricettivo agli effetti di futuri eventi stressanti. In particolare, si è osservato che quando un bambino ha subito degli stress precoci, è stato oggetto di abusi o di scarse attenzioni materne, avviene uno “sregolamento” dei recettori della serotonina, che diventano ipersensibili: ciò comporta una maggiore reattività a quegli eventi stressanti e ansiogeni che, eventualmente, si verificheranno da grandi.
Un trauma o una situazione sfavorevole nel corso della prima infanzia può quindi riflettersi negativamente sul comportamento dell’adulto, a causa di modifiche durature della biologia cerebrale: le ricerche hanno dimostrato che nell’adulto gli attacchi di panico, l’ansia o una propensione alla depressione possono affondare le loro radici nelle dinamiche infantili. In altre parole, i traumi precoci rendono sensibili ai traumi che potranno colpire l’adulto. Il maltrattamento emotivo infantile, inoltre, può avere un forte impatto sullo sviluppo cerebrale e, di conseguenza, sul comportamento e l’emotività. Nei bambini che hanno sofferto di carenze affettive si può riscontrare un ridotto sviluppo della corteccia prefrontale, in particolare del lobo cerebrale sinistro, anche quando non si sono verificate forme di abuso fisico o sessuale. Questi effetti su aree del cervello coinvolte in funzioni emotive possono spiegare perché i bambini maltrattati emotivamente sviluppino con maggiore facilità forme depressive o disturbi cognitivi.
Di recente, diversi studi hanno messo in evidenza una relazione positiva tra le cure offerte dalla madre nel corso della prima infanzia, un buono sviluppo cognitivo ed emotivo e il volume dell’ippocampo, una struttura cerebrale coinvolta in una serie di processi emotivi e cognitivi tra cui apprendimento e memoria. Non esiste soltanto un rapporto positivo tra buone cure materne e volume dell’ippocampo, ma è addirittura possibile prevedere, sulla base della qualità delle cure materne, il futuro maggior sviluppo dell’ippocampo: una ricerca ha infatti dimostrato che il volume dell’ippocampo può avere un incremento di oltre il 10% rispetto a quei bambini che hanno ricevuto poche attenzioni materne. Un ippocampo più voluminoso comporta un maggior equilibrio emotivo e consente una maggiore plasticità del cervello, a iniziare da una memoria più efficiente.
È quindi ormai assodata l’esistenza di un chiaro rapporto tra esperienza precoce, funzione cerebrale e comportamento. Oggi, però, si sta delineando un altro scenario che riguarda gli effetti di lunga durata di un trauma precoce, dovuti ad alterazioni nell’espressione dei geni (cioè nel processo con cui l’informazione contenuta in un gene viene convertita in una molecola con importanti funzioni biologiche). Questi fenomeni rientrano nella categoria dell’epigenetica: sono fenomeni ereditari in cui le caratteristiche dell’organismo (nel nostro caso del cervello) sono determinate non tanto dal DNA, ma dall’ambiente; in poche parole, l’ambiente può alterare l’attività dei geni senza tuttavia modificare i geni stessi. È stato dimostrato che una storia di esperienze negative precoci lascia “un’impronta” sul gene che regola la produzione di cortisolo, amplificando in tal modo la reattività a stress successivi.
Il fatto di subire gli effetti duraturi dei traumi – o la capacità di farvi fronte in maniera positiva – dipende perciò da una serie di caratteristiche biologiche individuali. Alcune di queste sono legate a fattori genetici, altre alla storia soggettiva: come raccontato prima, le esperienze precoci sono in grado di lasciare un’impronta che rende l’individuo più o meno suscettibile ai traumi psichici e alle avversità incontrate da adulto.
Trattandosi di fenomeni ereditari, poi, può verificarsi anche un “passaggio” tra generazioni: i figli di genitori che hanno subito forti traumi possono essere più sensibili allo stress. In alcune famiglie, quindi, non è un caso se il comportamento dei figli rispecchia quello dei genitori. Ciò può dipendere da meccanismi di espressione genica che passano da una generazione all’altra, ossia, in altre parole, un grave trauma psichico precoce subito dalla madre in età infantile può avere un impatto anche sui suoi figli.
professore emerito di Psicobiologia presso l’Università Sapienza di Roma, ha lavorato in numerosi istituti di ricerca internazionali. Dal 1976 al 2002 ha diretto l'Istituto di psicobiologia e psicofarmacologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche. È autore di oltre 200 pubblicazioni scientifiche, di saggi professionali, didattici e di divulgazione.