Qualche tempo fa, una madre, facendosi portavoce di molti genitori preoccupati per i loro figli che dicono “parolacce”, ha scritto a Uppa:
Sono la mamma di due bimbi, 3 anni il piccolo e quasi 5 la sorellina. Sono due bimbi allegri e collaborativi, a volte più difficoltosi, ma nella norma. C’è una cosa però che mi manda veramente su tutte le furie, ed è quando iniziano a ripetere tutta una sfilza di parole che loro considerano ridicole e divertenti, e quindi via di «cacca… puzza… patata… pisello…», con annessi versacci. Sembra una sciocchezza, ma quando continuano ininterrottamente diventa davvero irritante. Sgridandoli peggioro solo le cose, ma anche ignorarli non funziona. Ho provato a spiegare con parole semplici l’importanza delle parti “private” del loro corpo, che non dovrebbero essere oggetto di scherzi così sciocchini, ma l’attenzione dura pochi istanti. Esiste qualche accorgimento o tecnica magica per farli smettere?
Col rischio di dire cose ovvie, premetto alcune riflessioni. Al termine “parola” si aggiunge un suffisso dispregiativo, e diventa così “parolaccia”. È chiaro che la distinzione tra “parole” e “parolacce” è una convenzione: un gruppo sociale, a un certo punto della sua storia, decide che alcune parole non devono essere dette, perché considerate inaccettabili.
Solitamente le parolacce riguardano la sfera sessuale, le parti e le funzioni corporee escretorie, la religione, gli insulti. Come in tutti i comportamenti sociali, anche le parolacce sono più o meno permesse e tollerate a seconda del contesto. Rispetto al passato, dove il cosiddetto turpiloquio era oggetto di sanzione penale, oggi assistiamo a una maggiore tolleranza.
Le parolacce vanno e vengono: c’è un percorso tramite il quale una parola usata diviene parolaccia e, dopo un certo tempo, può tornare a essere una parola “normale”. Prendiamo ad esempio la parola “casino”. Anticamente indicava un rifugio in una tenuta di caccia; non era perciò una parolaccia. Poi, da quando diventò sinonimo di casa di tolleranza, assunse la connotazione di una parolaccia. Con la chiusura delle case di tolleranza (1959), il termine ha progressivamente modificato il suo significato ed è diventato sinonimo di confusione, chiasso, tornando a essere usato “normalmente”. Un percorso simile può essere considerato quello della parola “cazzo” che, dall’originario significato di organo sessuale, viene oggi utilizzata sempre più spesso come interiezione per sottolineare sorpresa o altre forti e improvvise reazioni.
È innegabile che ai bambini piaccia dire le parolacce. Possono cominciare da piccoli, senza ancora comprenderne il significato. Le ripetono perché suscitano negli adulti reazioni di sorpresa o indignazione, e a volte di divertimento. Viene così chiesto loro di non usare quelle parole: dirle è da maleducati, e per questo è proibito. E finché sono piccoli non servono spiegazioni. Crescendo, intorno ai 3-4 anni, cominciano a fare una distinzione tra quelle parole che, in certi contesti sociali, sono “proibite” e qualificate come parolacce. Fino ad arrivare all’adolescenza, durante la quale c’è una specie di sfida nell’utilizzo di parolacce ed espressioni trasgressive, come opposizioni alle convenzioni sociali.
Ritorniamo alla lettera che apre questo scritto. La mamma probabilmente non sarebbe altrettanto irritata se i suoi bambini dicessero “fèci… cattivo odore… vagina… pene”. Eppure direbbero parole che significano le stesse cose e indicano le stesse parti del corpo. In questo caso i bambini hanno scoperto un punto debole della mamma: quello di non voler sentire tali parole. Hanno così inventato un bel gioco: facciamo arrabbiare la mamma! Il gioco finirebbe nel momento stesso in cui la madre riuscisse a non prendersela, comprendendo che ai bambini piacciono tanto quelle parole che gli adulti proibiscono.
Riuscire a mantenere la calma, tuttavia, non risolve il problema che spesso il genitore si pone: la buona educazione prevede che non si utilizzino certe parole.
Allora, come comportarsi di fronte a un bambino che dice parolacce? La “regola aurea” è sempre la stessa: non utilizziamo davanti ai nostri bambini le parole che consideriamo parolacce. L’esempio, anche in questo caso, è ciò che incide di più sull’apprendimento dei figli e sui loro comportamenti verbali. I genitori non possono proibire efficacemente le parolacce se loro stessi le usano.
Ed è sempre una questione di educazione quella di far capire progressivamente al bambino che certe parole nei contesti sociali è meglio non dirle. Insomma, ai figli bisogna far capire che le parolacce sono proibite perché possono suscitare indignazione e offesa in altre persone; non usarle fa parte di una buona convivenza civile. Il buon esempio dei genitori faciliterà l’uso di parole appropriate al posto delle parolacce.
Roberto Piumini l’ha scritto e Clauda Venturini l’ha illustrato: è Il libro delle parolacce, una divertente raccolta in versi per sdrammatizzare la parolaccia e trasformarla in un gioco. Si comincia da un semplice tonto, ma non si disdegnano termini, come dire… più pregnanti, come “merdaiolo”, “carogna”, “che palle”. Una lettura da fare insieme a bambini per scherzare insieme e giocare con le parole. Di seguito un piccolo saggio:
Irina Cacca ha un ventaglio
fatto di bucce di rosa di aglio:
con quel ventaglio cosa fa?
Chi va avanti lo imparerà.
Con il ventaglio, ogni momento,
Irina Cacca si fa del vento.
Ma questo vento, perché lo fa?
Chi legge sotto lo imparerà.
Va il ventaglio per ore ed ore,
perché il vento caccia l’odore:
Irina Cacca, di sé scontenta,
mai si ferma, e mai rallenta.