Sguardi di disapprovazione, accompagnati da frasi a mezza voce («Potresti controllarti, in fondo è solo un bambino…»): le abbiamo sentite da un’altra mamma, dalla suocera, dal nostro compagno; perfino da un passante, se l’esplosione è avvenuta per strada o al supermercato. Lui, la vittima, lucciconi e aria abbattuta, sembra l’emblema dell’ingiustizia dei grandi. Ma che ne sanno gli spettatori dei dieci minuti in cui ha ripetuto con aria trionfante «Tanto io oggi a scuola non vado», «Tanto io dalla macchina non scendo»? Cosa ne sanno del terzo richiamo del capo («Lo capisco, una donna con dei figli ha le sue difficoltà, ma la puntualità è una regola per tutti»), dell’angoscia sottile che lasciano quelle parole, dell’orologio che dice chiaramente che anche oggi arriveremo in ritardo… Quella che hanno visto è una donna fuori di sé, che gridava «Adesso basta!» strattonando un bambino per farlo scendere dall’auto. Lui adesso se ne sta lì con aria saggia, zainetto in spalla, salutando i compagni di scuola, e tu ti chiedi: «Dove ho sbagliato? Come ho fatto a farmi trascinare così?».
Quando ci arrabbiamo con i nostri figli i primi a vergognarcene siamo noi. Come se quella rabbia fosse il segno che qualcosa non va, che siamo sbagliati, che non li amiamo abbastanza. Ebbene, per quanto possa sembrare strano, proprio impedirsi di essere arrabbiati può “comprimere” la rabbia fino a farla diventare esplosiva, incontrollabile, distruttiva. Non esiste la rabbia immotivata: ci si arrabbia quando vengono ostacolate le nostre azioni, quando ci viene impedito di raggiungere qualcosa di importante; ci si arrabbia quando ci sembra che i nostri sforzi non vengano riconosciuti, che la nostra fatica non venga rispettata. Ci si arrabbia quando pensiamo che l’altro dovrebbe e potrebbe, se lo volesse, comportarsi diversamente.
Capita anche con i figli. A seconda della loro età, vi verrà subito in mente il piccolo “tiranno” di 2 anni, capace di capricci ostinati e spettacolari; o la piccola “antagonista in erba”, che già a 6 anni contesta puntigliosamente ogni richiesta e ogni proposta che non le va a genio; oppure il temibile preadolescente in grado di trasformare qualsiasi tentativo di fissare delle regole in un cavilloso dibattito che termina invariabilmente con «e comunque io non lo faccio e tu non puoi costringermi!».
Lo stretto rapporto che c’è tra genitori e figli ci espone continuamente a momenti in cui lui o lei riesce a tirarci fuori una rabbia che sorprende persino noi stessi. Ma allora non basta l’amore che proviamo per loro a non farci perdere il controllo? È una domanda che ho sentito anche in occasione di eventi drammatici: è davvero possibile che una madre arrivi a scuotere il suo bebè fino a provocargli danni terribili? Purtroppo bisogna ammettere che sì, è possibile. L’unico modo per non essere travolti dalla rabbia è imparare a riconoscerla, accettarla, e trovare le strategie per evitare di passare dall’“esprimerla” all’“agirla”.
Mike Fisher, uno psicologo inglese che si occupa da anni di gestione della rabbia, osserva che i genitori che si scoprono capaci di vere e proprie crisi nei confronti dei figli entrano in uno stato di apprensione e di mancanza di autostima: temono di avere fallito, e danno per scontato che gli altri genitori siano migliori di loro. Questo non fa che peggiorare la situazione, esponendoli sempre di più a episodi di “perdita di controllo”.
Imparare a riconoscere la rabbia prima che diventi ingestibile è un esercizio difficile ma non impossibile, e ha un grande valore educativo: mettendolo in pratica insegneremo ai nostri figli a fare altrettanto.
La rabbia ha una funzione di difesa: quando quello che vediamo succedere ci sembra sbagliato, dannoso, pericoloso per noi o per gli altri, reagiamo per contrastarlo e la rabbia ci serve da carburante.
Un neonato che piange per ore e logora le nostre riserve di energia ci fa arrabbiare. Un bambino che non fa quello che gli chiediamo ci fa arrabbiare. Un ragazzo che si espone a dei rischi e rifiuta i nostri consigli ci fa arrabbiare. E quando siamo arrabbiati per qualcosa che qualcun altro sta facendo vorremmo soltanto che smettesse di farlo. A mente fredda, ci rendiamo conto che è un desiderio impossibile: ormai si è innescato un circolo vizioso di emozioni in cui ciascuno contagia l’altro con la propria rabbia, senza che si aprano strade di “decompressione”. Ma cosa potrebbe aiutarci a interrompere quel circolo? Molto spesso la rabbia nei confronti di un figlio è alimentata dalla convinzione che, se volesse, potrebbe non fare quello che sta facendo, e che se lo fa è per farci soffrire, o perché si disinteressa di noi. Questo rende più amare le nostre parole, più esasperati i nostri gesti, e così gli trasmettiamo l’idea che sia lui a sbagliare, lui che dovrebbe calmarsi e ammettere di comportarsi male, lui che dovrebbe smettere e chiedere scusa. Per farlo, però, dovrà aver imparato che si può uscire dignitosamente da uno scambio rabbioso, da un confronto anche duro, da litigi in cui si sono dette parole che si vorrebbe non aver detto. E questo glielo possiamo insegnare soltanto noi.
Cosa fare, dunque? Ecco alcuni comportamenti da seguire:
psicologa, psicoterapeuta della famiglia e docente di counselling alla Scuola di specializzazione in Pediatria dell’Università di Torino, ha elaborato il metodo del counselling sistemico narrativo, che utilizza nella formazione dei professionisti e negli interventi per lo sviluppo delle competenze genitoriali. Ha fondato la scuola di comunicazione e counselling CHANGE di Torino.