Sono le tre di pomeriggio e, seduta alla scrivania con l’agenda in mano, Valeria si guarda intorno: in salotto, fra giochi e bavaglini, sono sparpagliati i resti della festa di compleanno del giorno prima. Nella navicella, il suo bambino di 2 mesi, addormentato, le concede l’opportunità di sedersi finalmente a lavorare. L’altra figlia, invece, tornerà dall’asilo tra meno di un’ora.
Le cose da fare sembrano sempre troppe, il tempo a disposizione sempre poco: la lettera del commercialista le fa l’occhiolino dal faldone sopra il computer, una traduzione urgente aspetta sulla scrivania, i piatti sporchi la chiamano dal lavello. Pur avendo deciso che in questo momento il lavoro ha la priorità, Valeria si sente schiacciata da ogni parte. Tutte le volte che in casa cala il silenzio, nella sua testa si affastellano le domande, quasi che il suo cervello avviasse diversi programmi contemporaneamente: ha fissato tutti gli appuntamenti? Ha preparato le lezioni? Cosa aveva detto di fare, il pediatra, per la congiuntivite?
Una mamma, a volte, vorrebbe solo potersi fermare e concentrare. Questo accade soprattutto alle mamme che lavorano, magari da casa. La possibilità di gestire in autonomia i tempi del proprio lavoro, infatti, si scontra con forti interferenze tra la sfera personale, quella domestica e quella professionale, inevitabili quando gli spazi del lavoro e della vita familiare coincidono.
Nella gestione di queste interferenze viene in aiuto una competenza che gli esperti di neuroscienze chiamano multitasking o “multi-processualità”. Il termine, che arriva dalla scienza informatica, indica la capacità di un sistema operativo di eseguire più programmi insieme. Nel caso degli esseri umani, fa riferimento alla capacità di fare più cose allo stesso tempo, dedicando a tutte la stessa attenzione, in modo alternato o sovrapposto: la ricercatrice Linda Stone, nel 2007, la definì “attenzione parziale continua”.
Stiamo parlando di un fenomeno nuovo? In realtà, si dice che le donne siano multitasking “da sempre”, e in effetti questa caratteristica sembra avere un’origine storica e sociale.
Il cervello di ogni essere umano è perfettamente in grado di processare più informazioni insieme, anche se non tutte con la stessa precisione, e nell’era del digitale le nostre menti si stanno in parte riconfigurando per gestire grandi quantità di dati.
Ma il cervello è un muscolo e, come tale, va allenato. Per questo le donne, che, in molte società, si occupano ormai da tempo sia della gestione domestica sia dell’educazione dei figli, hanno sviluppato una capacità di “attenzione suddivisa” che, nel corso della storia, si è progressivamente rinforzata, prima con il loro graduale ingresso nel mondo del lavoro extradomestico, poi con la diffusione delle libere professioni. Il multitasking, dunque, oggi caratterizza la vita di moltissime donne ed è ciò che consente loro di “tenere insieme” le molteplici dimensioni che compongono le proprie identità.
Ma si tratta davvero di una risorsa, o può diventare fonte di frustrazione? La questione è dibattuta: tra gli studiosi c’è chi la considera un’abilità imprescindibile per affrontare la contemporaneità e chi invece la ritiene una risposta “innaturale” e condizionata dalle pressanti richieste di produttività ed efficienza tipiche del nostro tempo.
Diverse donne ammettono che la necessità di occuparsi di più cose insieme, abbinata a una difficoltà a delegare, non è così efficace sul lungo periodo perché provoca stanchezza, nervosismo e un aumento considerevole di quello che viene definito “carico mentale”. Molte di loro, a un certo punto, vorrebbero riuscire a fare esattamente il contrario: fermare i pensieri, metterli in ordine e affrontarli uno per uno, dando priorità a quello che percepiscono come più urgente.
Nel loro sentire, quest’ultima capacità sembra caratterizzare invece gli uomini, anche quando padri: se le donne, diventate madri, tendono a dividere la propria attenzione, cercando di “tenere tutto insieme” (casa, lavoro, cura di sé e dei figli), gli uomini in genere fanno una cosa alla volta, il che permette loro di avere aspettative più realistiche sulle proprie performance. Uno studio comparativo del 2013, confermato da ricerche successive, avrebbe evidenziato la diversa architettura cerebrale di uomini e donne rispetto alla multi-processualità e alla gestione dei compiti domestici e lavorativi.
Che sia tipico di donne o uomini, fare più cose insieme o farne una alla volta sono senza dubbio due maniere diverse di organizzare le azioni e i processi mentali, e diversi sono anche gli effetti che si ottengono sul mondo circostante.
Sono sempre di più le donne che, pur cercando per abitudine o tradizione culturale di occuparsi di tutto, vorrebbero risparmiare e ottimizzare le energie, soprattutto dopo l’arrivo di un figlio. Secondo le ultime ricerche neurobiologiche, la maternità modifica il cervello proprio in questo senso: innesca non solo dei meccanismi di adattamento ormonale, ma una vera e propria ristrutturazione delle connessioni cerebrali, influenzata fortemente dai sostegni, o dagli ostacoli, incontrati dalla futura mamma nel suo ambiente di vita.
Sin dalla gravidanza, la donna percepisce una specie di “depotenziamento cognitivo”, dovuto, oltre che alla stanchezza, a una riduzione del volume di materia grigia cerebrale nella corteccia posteriore e in quella frontale media, le aree coinvolte nella percezione di sé e della socialità. Il cervello si prepara a specializzarsi per i compiti della maternità: si orienta verso l’esterno, cioè verso il bambino.
I neuroni materni divengono “antenne” sensibilissime in grado di intercettare i bisogni anche minimi del piccolo. Sembra che questi cambiamenti cerebrali si conservino per circa due anni dopo il parto, un tempo sufficiente a consolidare certe abitudini di accudimento.
Tale processo va in senso contrario al principio del multitasking, che spinge invece ad attivarsi su più fronti, spesso per evitare i sensi di colpa. Il multitasking, allora, rimane potenzialmente una risorsa ma, affinché non diventi uno spreco di energie e causa di malessere, va orientato nella giusta direzione, che è quella della cura condivisa: un’esperienza complessa, spesso dichiarata a parole ma non sempre realizzata nei fatti, rispetto alla quale la società deve promuovere interventi di sostegno attivo alla genitorialità e ognuno dei genitori portare le proprie strategie e, se necessario, imparare a rivedere le priorità.