Questa è la storia di una bambina, nata di 28 settimane all’ospedale Fatebenefratelli di Roma, sull’isola Tiberina, che da allora è chiamata “l’isola di Giulia”. Era stata una gravidanza fortemente desiderata, per la quale, dopo anni di sconforto, avevamo fatto ricorso alla procreazione assistita. La gestazione non era stata priva di problemi, ma quella notte di settembre, arrivando all’isola Tiberina tre mesi prima della scadenza del termine, eravamo abbastanza tranquilli.
Nonostante le contrazioni precoci, io mi sentivo protetta in quella camera d’ospedale. L’accoglienza dell’infermiera era stata gentile e confortante e non prevedevo proprio che di lì a una settimana sarebbe nata la bambina. Il lunedì pomeriggio la dottoressa decise, quasi improvvisamente, un controllo ecografico che ci lasciò stupiti ma non ancora allarmati; alle 17.00 il medico che effettuava l’ecografia ci comunicò che la bambina era troppo piccola per l’età gestazionale, il suo peso era stimato in circa 600 g, la placenta non faceva più il suo dovere ed era necessario intervenire per cercare di salvare la bambina: la speranza era un filo sottile.
Immediatamente mi portarono in sala parto: cesareo d’urgenza. Rimasi lucida fino a che non portarono via la bambina; non feci domande sulle sue condizioni, se fosse viva o morta, non ne avevo il coraggio, poi mi abbandonai a un pianto infinito. Mi dissero, poi, che pesava 710 g e che per qualche giorno non avrei potuto vederla. Il mattino dopo, grazie all’effetto dei calmanti, ero serena: fu l’unico giorno di serenità dei molti mesi che seguirono.
I sentimenti di morte sopraffacevano qualsiasi mia sensazione, il padre della bambina, al contrario, era animato da grande ottimismo, persino fiero di quella piccola bambola, che in verità somigliava a una piccola rana. Ebbi poi la fortuna di incontrare due giovani e appassionate ostetriche che, nonostante conoscessero perfettamente la precarietà della vita di Giulia, mi istruirono con dolcezza straordinaria sulla possibilità di allattare la mia bambina. Fu così che iniziò la mia dura vita dedicata al tiralatte, quattro mesi che mi ridiedero fiducia e speranza nella vita.
Quando, tre giorni dopo il parto, avevo visto la bambina nel reparto di terapia intensiva, legata ai sensori e al respiratore, ne ero rimasta straziata; il personale del reparto e la caposala furono meravigliosi, ma il mio dolore non era consolabile, la mia disperazione e la mia testa appoggiata sull’incubatrice non accettavano intrusioni.
Dopo una settimana venni dimessa: il giorno più scuro della mia vita. Ebbero inizio i tre mesi e le tre settimane della degenza di Giulia; ogni giorno e ogni notte tiravo il latte ogni tre ore, qualche goccia per lei e il resto alla banca del latte dell’Ospedale Bambino Gesù; le mie giornate trascorrevano nelle stanze che ospitano le mamme del reparto. Amicizie e tragedie si susseguivano, insieme all’angoscia giornaliera per ogni controllo cerebrale e fisico, alla straziante attesa per il raggiungimento del primo chilo di peso.
Data di inizio dell'ultimo ciclo mestruale
Con il passaggio al reparto semintensivo mi si schiuse la strada alla marsupio-terapia. Ogni giorno vivevo aspettando i minuti che potevo dedicare a coccolare la bambina sul mio seno, a farle sentire il mio odore, la mia voce, le mie canzoni, il mio amore. I primi cambi dentro l’incubatrice, i primi biberon con gocce di latte, del mio latte! I rapporti con il personale del reparto, la loro dedizione e gentilezza, ci hanno aiutato a vivere bene la fase in cui i pericoli peggiori erano stati, per fortuna, scongiurati. Allo scadere del tempo gestazionale, poco prima di Natale, finalmente la bambina lasciò la sua mamma artificiale e venne trasferita ai lettini. Cambi e biberon, padri e madri, parole di sollievo e conforto delle altre mamme.
Il 13 gennaio 2000 ha inizio la vita nuova, nostra e della bambina, perché siamo finalmente tutti a casa. Effettuiamo dei controlli periodici all’ospedale, per verificare l’andamento della crescita motoria e cerebrale: non si presenta nessun problema. Dopo una settimana che è a casa, e dopo tre mesi e tre settimane di biberon, incredibilmente Giulia (forse per premiarmi) sceglie di succhiare direttamente il latte dal seno; lo farà per altri dieci mesi.
A un anno sa gattonare e a 15 mesi cammina, imparerà a parlare precocemente, a 17 mesi dice la sua prima frase «cara mamma» e io mi commuovo. In questi anni la mia vita è radicalmente cambiata: nei primi due anni di vita della bambina ho vissuto esclusivamente con lei, ho seguito ogni suo piccolo cambiamento con passione e attenzione, ho inventato giochi per stimolare il suo interesse, ho vissuto un’inesistente vita sociale, e così la solitudine ha superato ogni relazione umana. Sicuramente ho sbagliato molto, ma ho fatto quello che ero in grado di fare.
A due anni Giulia ha iniziato il nido, tra dolorosi distacchi e grandi progressi. Poi, dai tre anni, ha frequentato la scuola dell’infanzia. Il suo peso a quel tempo era di 12 kg, non era certo un gigante, ma era affettuosa, sensibile, esprimeva già bene i suoi sentimenti e aveva una grande determinazione, la stessa che le era servita per vincere la sua battaglia.
Adesso ha sei anni, peso e altezza sono nella norma e per me, naturalmente, è la bellezza del mondo. È entusiasta di frequentare la prima elementare, adora leggere e rifiuta qualsiasi attività ricreativa regolamentata. È allegra e curiosa, ha molti amici, possiede autocontrollo e una sorprendente consapevolezza e, come tutti, ha innumerevoli deliziosi difetti.
Tempo fa, dopo un litigio tra madre e figlia, dove sono volate per la prima volte parole dure, di sfogo contro di me, dopo l’utile temporaneo distacco fisico-visivo, si è presentata con una letterina che diceva così: «ciao mamma scusami per le parole che ho detto. Ti amo. Giulia». Ecco, adesso è cosi, ma quando camminiamo per la strada, lei solitamente saltella, sorride e le volano i codini, e inevitabilmente mi torna alla mente la mia piccola dolcissima rana.
Marsupio terapia: si chiama anche “metodo delle madri-canguro” (Kangaroo Mother Care), non richiede attrezzature biomediche, può essere applicato ovunque a bassi costi e condotto anche a domicilio, dopo una prima fase di avvio ospedaliero. È l’uovo di Colombo che ha rivoluzionato l’assistenza ai neonati di basso peso nei paesi poveri. Da alcuni anni è stata adottata anche nei paesi industrializzati.
Molto semplicemente, il corpo della madre viene utilizzato come incubatrice: il neonato di basso peso (dai 600 g in su) può venire “attaccato” al corpo della madre (o del padre) mantenendo il contatto pelle a pelle per tutto il tempo necessario a raggiungere una sufficiente omeotermia. È provato che in questo modo i bambini raggiungono una temperatura migliore, si ammalano meno e vengono allattati al seno più facilmente dei bambini tenuti solo in incubatrice.