Esiste una proteina nel sangue materno che consente di identificare le gravidanze a rischio di anomalie cromosomiche fetali, in particolare della trisomia 21 (nota come Sindrome di Down), ma non solo. Si tratta della proteina PAPP-A (acronimo di Pregnancy-associated plasma protein A), prodotta nella placenta nelle primissime fasi della gravidanza, dopo l’impianto dell’ovulo fecondato nell’utero. La sua diminuzione nel sangue può indicare, in associazione ad altri valori, un rischio per la salute del feto e della mamma.
La Proteina plasmatica A gioca un ruolo chiave durante la gravidanza. È infatti implicata nel processo di impianto del trofoblasto (il tessuto cellulare che nutre l’embrione) ed è utile per lo sviluppo e la funzionalità della placenta durante tutta la gestazione.
La concentrazione di PAPP-A nel sangue materno aumenta con il progredire dell’età gestazionale per poi diminuire rapidamente dopo il parto. Venne identificata per la prima volta nel 1974 e ad oggi viene controllata di routine durante i test di screening per le più diffuse anomalie cromosomiche, come la sindrome di Down e la sindrome di Edwards (trisomia 18), nel primo trimestre di gravidanza.
La diminuzione dei livelli di PAPP-A nel sangue indica un aumento del rischio sia di anomalie cromosomiche sia, secondo recenti studi, di esiti avversi della gravidanza, come ad esempio la preeclampsia nella donna. Inoltre, si sta studiando la possibilità che si associ anche a: parto pretermine, ritardo della crescita intrauterina fetale, casi di aborto spontaneo e morte del feto in utero.
Misurare i livelli di PAPP-A durante la gestazione è estremamente utile. Se presente in quantità inferiori (circa il 60% in meno) rispetto alla norma, infatti, si può avere il sospetto di essere di fronte a una gravidanza con feto affetto da anomalia. Andranno quindi in caso svolti altri esami mirati, dal momento che il test alterato non dà certezza di malattie.
L’informazione si ottiene con un semplice esame del sangue, non invasivo e precoce, che può essere eseguito già nel primo trimestre, identificando la popolazione a maggior rischio per le patologie cromosomiche. Ciò permette alle donne o alla coppia di decidere se procedere con metodiche più invasive, come la villocentesi e l’amniocentesi.
La stima del rischio di sindrome di Down, ad esempio, ottenibile con un test di screening (come il test del DNA fetale, che permette di individuare possibili malattie cromosomiche del nascituro, da confermare poi con test più complessi), fornisce alla paziente uno strumento che consente di prendere decisioni consapevoli nell’ambito della diagnosi prenatale. Le donne devono essere chiaramente informate però che lo screening fornisce appunto una stima del rischio, non una diagnosi per identificare tutti i tipi di anomalia cromosomica.
I test di diagnosi prenatale che prevedono il dosaggio della PAPP-A in combinazione ad altri fattori sono i seguenti:
Come accennato, secondo gli studi più recenti, il dosaggio della proteina PAPP-A è utile non solo per la diagnosi prenatale, ma anche per monitorare lo sviluppo della preeclampsia, principalmente a esordio precoce. Anche in questo caso, però, il valore dovrebbe essere combinato con un’ecografia specifica dell’arteria uterina e con altri indicatori, al fine di ottenere un tasso di affidabilità più elevato. La misurazione dei livelli di PAPP-A per la prevenzione della preeclampsia è tuttavia ancora oggetto di discussione tra gli esperti.
Uno studio italiano, attraverso i dati raccolti su più di 3.000 casi, ha dimostrato che bassi livelli di PAPP-A nel sangue materno durante il primo trimestre di gravidanza sono associati anche ad altri esiti che riguardano la salute del bambino e della madre, tra cui bassa statura nel piccolo e sviluppo del diabete mellito materno in età avanzata. È tuttavia ancora prematuro assegnare alla PAPP-A un ruolo chiave nello screening di future malattie metaboliche tra le donne in gravidanza.
I valori della proteina PAPP-A nel sangue materno sono rilevabili subito dopo l’impianto dell’embrione e raddoppiano ogni 3-4 giorni durante il primo trimestre, fino ad arrivare ai massimi livelli al termine della gravidanza. Per un’interpretazione corretta, occorre sempre correlarli all’età gestazionale della donna al momento del prelievo; più precisamente, si divide il valore ottenuto dal prelievo per il valore atteso rispetto all’epoca gestazionale in questione. L’unità di misura utilizzata è il MoM (multiplo di meridiana).
Valori alti di PAPP-A, tendenzialmente non hanno un significato patologico, mentre i valori bassi (0,4 MoM e inferiori) sono talvolta associati a:
Un referto che presenta un livello alto o basso di PAPP-A nel sangue può generare preoccupazione nei genitori. Nel caso di livelli alti, come detto, non c’è da allarmarsi, dal momento che in gravidanza la concentrazione di PAPP-A nel siero della donna aumenta gradualmente fino al parto.
Se la donna presenta invece un referto con bassi livelli di PAPP-A, cosa deve fare? Innanzitutto è importante ricordare che, preso singolarmente, il valore non costituisce diagnosi per nessuna patologia specifica. Bassi livelli di PAPP-A vanno infatti valutati da un operatore esperto e approfonditi attraverso una sorveglianza ostetrica personalizzata in base al caso e al contesto della sua misurazione.
Ostetrica e giornalista scientifica, lavora attualmente nella Sala Parto dell’Ospedale Santi Giovanni e Paolo di Venezia, dove si occupa dell’assistenza al travaglio e al parto fisiologici e dell’assistenza neonatale e nel puerperio.